Il mondo sotto – 17.05.1980

L’allegato illustrato al quotidiano “Il Piccolo” di Trieste, dedicato alla speleologia

Quello che trovate qui sotto è il contenuto integrale de “Il Piccolo Illustrato” del 17 maggio 1980, un allegato quasi interamente dedicato alla speleologia. Le notizie, i dati ed i riferimenti ai Gruppi Speleologici, quindi sono da ritenersi del tutto sorpassati, ma nonostante ciò è interessante paragonare quanto e come si parlava della speleologia solo un quarto di secolo fa rispetto alla realtà attuale: e qualche riflessione va fatta!
Buona lettura.




UN FENOMENO CARSICO

LO SPAZIO DI SOTTO


Anche da una breve panoramica di questi fenomeni naturali si può notare quanto importante sia il patrimonio culturale, sociale, umano, oltre che naturalistico che vi si trova e che dovrebbe essere maggiormente valorizzato

di MARIO BUSSANI

Il fenomeno carsico è quel processo che avviene nella roccia calcarea e prende il nome dal Carso: zona circostante a Trieste.
L'azione che l'acqua esercita sulla roccia è meccanica e chimica. Quella meccanica viene anche chiamata di erosione ed è esercitata dalle acque scorrenti sulla superficie della roccia stessa per mezzo del semplice contatto oppure anche per il trasporto di sedimenti più o meno grossolani sospinti dalla forza idrica.
A questo lavorio puramente meccanico si aggiunge l'azione dissolvente delle acque ricche di acido carbonico sciolto nelle stesse. Viene così letteralmente intaccata la roccia carbonatica e nei millenni vengono così for-ma;i i pozzi verticali, le gallerie orizzontali, le cavità naturali miste che possono raggiungere i 40 chilometri di lunghezza e i 1000 metri di profondità.
Le rocce calcaree non hanno una omogeneità perfetta. Dove vi sono più o meno grandi fessurazioni l'acqua penetra più facilmente e si formano cosi lunghe e spaziose gallone che a seconda dell'età sono più o meno concrezionate. Anche le grotte cioè hanno una loro vita, il tempo è però calcolato in migliaia di anni. La prima fase, quella giovanile, è quando le pareti lisce sono ancora sottoposte alle forze che formano la cavità. La seconda fase, quella matura, è quando il complesso sotterraneo si è arricchito delle formazioni calcaree più diverse che vengono conosciute sotto il nome di stalattiti e stalagmiti. La terza fase è quella senile e in questo ultimo periodo di vita della cavità avvengono lentamente i crolli, di conseguenza i riempimenti cioè l'occlusione definitiva della cavità stessa. La formazione delle stalattiti e delle stalagmiti avviene solitamente per l'apporto del carbonato di calcio nello stillicidio lento ma continuo all'interno delle grotte. Ogni goccia così scorrendo lascia sul substrato che percorre una leggera pellicola di calcare il cui spessore in mille anni può essere all'incirca di un solo centimetro. Così si formano lentamente delle colonne discendenti dalla parete superiore o tetto della cavità ed è per questo che si chiamano stalattiti . Le gocce di acqua continuano ancora a scorrere e a depositare il calcare sino a rompersi per la caduta sul pavimento dell'antro. Sotto l'effetto del col-” pò, loro perdono ancora il contenuto in carbonato di calcio.

In alto, accanto al titolo, una stampa ai A.D. Golz che riproduce la discesa in un pozzo; le altre foto si riferiscono ad esplorazioni in alcune grotte del Friuli Venezia Giulia. (Si ringrazia per la collaborazione la Società Alpina delle Giulie e in particolare la Commissione Grotte)



Nelle foto alcune fasi della spedizione dell'Alpina all'abisso Gortani.

Così inizia una nuova costruzione dal basso verso l'alto in senso antigravitazionale. Queste colonne e altre concrezioni ascendenti vengono chiamate stalagmiti. Stalattiti e stalagmiti finiscono qualche volta per incontrarsi e saldarsi in un unico pilone: questa figura gli speleologi la chiamano: «gli amanti». Facilmente si può immaginare il pizzico di romanticismo posto laggiù nelle tenebre dove per migliaia di anni le due concrezioni sono state di fronte senza potersi toccare. Ora invece l'abbraccio sarà eterno.
Le acque piovane o anche un fiume sotterraneo come ad esempio il Timavo possono essere inghiottite da un abisso, allora vi è un corso ipogeo e quando queste acque riappariranno avranno un nome particolare, quello di «risorgive». Si possono così osservare i percorsi mediante appositi traccianti fisici o chimici talvolta anche biologici e ricercare così punti di uscita o di contatto con altre grotte. Il fenomeno carsico ha molteplici aspetti; il più comune fra tutti è la «conca carsica»:
viene originata dalla raccolta in fratture più o meno distanti dalle acque superficiali. Il più delle volte una di queste fessure si allarga maggiormente rispetto alle altre e si origina così l'inghiottitoio» che raccoglie e successivamente smaltisce nel sottosuolo le acque di questo bacino. Il deflusso verso questo punto crea per erosione una figura circolare che nel tempo si sprofonda e aumenta di ampiezza. Si hanno così «conche carsiche» delle più svariate dimensioni. Da quelle di qualche metro di diametro e alcuni metri di profondità sino a quelle larghe oltre 2 chilometri e profonde alcune centinaia di metri. Caratteristiche sono quelle che hanno un diametro inferiore al chilometro e vengono chiamate «doline» mentre quelle che superano questa misura sono invece chiamate «bacini carsici».
L'idrografia sotterranea dunque sostituisce totalmente l'idrografia superficiale ed entrambe si condizionano a vicenda. Ecco così che in questa costante trasformazione si ha inesorabilmente il cambiamento del suolo e del sottosuolo, questo fenomeno è definito come «evoluzione carsica».
La flora e la fauna del Carso appartengono alla biospeleologia e rappresentano un mondo vivente ancora tutto da scoprire. La flora carsica superficiale è già complessa per se stessa dato l'incontro di quattro diverse regioni floristiche: l'alpina, la baltica, la pontica, la mediterranea. Fra queste si potrebbe annoverare una quinta flora, quella «locale», con un numero non indifferente di specie endemiche.
La flora dunque del solo Carso nel suo complesso si presenta veramente interessante e comprende un numero che raggiunge per le sole Fanerogame e Crittogame vascolari le duemila specie.
La flora cavernicola è quasi interamente costituita da piante troglofile, da quelle cioè che crescono anche in superficie ma che si sono adattate sino agli estremi limiti della loro vita, i particolari condizioni ambientali. Il mondo ipogeo infatti è condizionato più che mai dai seguenti fattori: luce, temperatura, umidità, substrato.
Così dall'ambiente esterno costituito quasi essenzialmente nella regione carsica da: quercia, olmo, betulla, carpino, acero, ostrea, ontano, ecc. tra le piante arboree e i gruppi di: sassifraghe, auricole, sileni, dafni, veratri, aconiti, genziane, ecc. tra quelle arbustive, si trasformano nel numero e nella qualità delle specie.
Dapprima la clematite e l'edera, poi la felce maschio, le lingue cervine, i polipodi, gli aspleni, le rute murarie, i densi tappeti del muschio più fiorente che si abbia quale: Nekera crispa ed infine nel profondo dove mai vi giunge la luce diretta le alghe azzurre o cianoficee. Queste ultime rappresentano l'estrema forma di vita della biosfera. La fauna altrettanto importante ha un numero grandissimo di animali cavernicoli e data la vastità. dell'argomento tutt'ora per molti versi in evoluzione e in discussione non è possibile che accennarne il problema senza minimamente tentare di risolverlo. I principali rappresentanti della fauna cavernicola possono essere divisi in due grandi gruppi: quelli terrestri e quelli acquatici.
Per quanto riguarda invece l'adattamento in relazione alla vita sotterranea che questi possono condurre, possiamo distinguere tre gruppi principali. I troglosseni o specie accidentali sono animali che vivono normalmente all'esterno, in superficie ma che per cause diverse sono stati costretti a vivere nell'antro. Non si riproducono che difficilmente e possono essere esemplificate nelle mosche, zanzare, farfalle notturne e persino ranocchi. I troglofili sono quegli ammali che prediligono le cavità naturali ma che si possono trovare abbondantemente anche in superficie. Essi occupano gli ambienti e i substrati illuminati dal riflesso della luce diurna e sono ad esempio alcune specie di cavallone, di ragni, di miriapodi in generale. I troglobi invece sono quelli quegli individui che appartengono esclusivamente all'ambiente ipogeo. In alcuni di essi mancano gli organi visivi quali ad esempio gli anoftalmi e i silfidi, m altre specie invece questi organi sono ridotti estremamente come ad esempio nel Proteo.

I principali fenomeni carsici nella Regione Friuli Venezia Giulia sono: a) il Carso propriamente detto, quello cioè che circonda Trieste; b) l'acrocoro del Canin, quello che racchiude con una serie di cime l'altopiano omonimo; e) l'altopiano della Bernadia, quello che viene a trovarsi nella parte settentrionale della pianura friulana con le colline moreniche e i Monti Musi che a ventaglio delimitano la zona; d) l'altopiano del Cansiglio, incluso il Monte Cavallo e la Valcellina; e) l'altipiano del Ciaorle con il Monte Faiet, a nord di Spilimbergo; f) le Valli del Natisone con le grotte omonime e quelle che circondano Cividale.
Il Carso è un enorme anticlinale, spianato ormai dal tempo, che dal mare si dirige verso l'entroterra dell'Istria. Era percorso nei pri-mordi dal fiume Timavo che successivamente a San Caimano presso Divaccia è sprofondato donando uno dei più bei fenomeni che esistano; le voragini di San Canziano alte oltre 164 metri. Gli affluenti di questo paleofiume hanno originato oltre 2 mila cavità sotterranee parte delle quali sono tuttora esistenti nel solo territorio italiano. Appartengono alla morfologia carsica anche i tenitori del Monfalconese, del Goriziano, del Gradiscano. I fenomeni di un'area il più delle volte sono strettamente collegati con l'altra. Inutile dire che le ricerche pur non essendo appena iniziate sono ben lontane da essere ultimate e i misteri di ieri rimangono tutt'oggi aperti. Così il percorso sotterraneo del Timavo, l'influenza del Vipacco nelle risorgive, il travaso dell’Isonzo in entrambi i precedenti fiumi sono ancor oggi veri propri problemi la cui soluzione non potrà essere immediata. Merita un cenno tra tante cavità quella che maggiormente ha contribuito alla conoscenza dei fenomeni meteorologici ipogei ed è rimasta da pochi conosciuta: la Costantino Doria (N. 3875 VG.). Questa grotta, scoperta da due tra i più valenti speleologi triestini, F. Forti e T. Tommasini, è stata adattata con la presenza del professor S. Polli a stazione sperimentale; nei vari decenni ha fornito dati scientifici a tutto il mondo, ponendosi all'avanguardia nelle osservazioni e nella ricerca. Sarebbe un assurdo pensare a visioni campanilistiche quando si afferma che i gruppi speleologici triestini di esplorazione sono i più antichi nel mondo. L'altopiano del Monte Canin, sito nella parte nord orientale della Venezia Giulia, ai confini con la Jugoslavia, è l'ultimo dei fenomeni carsici scoperti ma attualmente è il primo per l'importanza che riveste, sia quella scientifica che quella tecnica. Le grotte esplorate sono oltre 600 sopra un territorio che rappresenta un quarto di quello carsico. Le esplorazioni non ancora ultimate riserveranno certamente delle enormi sorprese. Questo altipiano comprende sin d'ora gli abissi più importanti d'Europa tra i quali quello denominato Michele Gortani (N. 585 Fr.) che viene a trovarsi nel Col delle Erbe sopra Chiusaforte ed ha una profondità di 920 metri e uno sviluppo complessivo di quasi 9 chilometri. Ancora oggi è in corso l'esplorazione poiché non si è raggiunto il fondo. L'abisso Marino Vianello (N. 1249 Fr.) a ricordo dello speleologo triestino travolto da una valanga mentre si portava sul monte Canin per esplorare quella zona, con una profondità di 585 metri e uno sviluppo complessivo di oltre 4 chilometri, anche questo in corso di esplorazione. L'abisso Eugenio Boegan (N. 555 Fr.), con una profondità di 624 metri e uno sviluppo di quasi 1 chilometro. Storicamente questo abisso ha una sua importanza essendo stato il primo scoperto e che successivamente ha dato l'avvio a tutte le ricerche nella zona. Se gli abissi hanno la loro importanza non di meno sono le risorgive e tra queste la più imponente quella di Salotto chiamata Fontanon di Goriuda (N. 1 Fr.). Da questa sgorga tanta acqua da poter fornire quasi l'intera regione. Gli esperimenti mediante i tracciati chimici e in particolare la fluorescina hanno condotto ad un'ipotesi che potrebbe sembrare essere azzardata, quella cioè che le acque di questa risorgiva provengono dall'altopiano posto 1000 metri più sopra. Alcuni anni orsono vi è stata una interessante polemica giornalistica secondo la quale veniva attribuito o meno l'esistenza in quella zona di minerali uraniferi. L'altipiano della Bernadia con il monte omonimo è la meta preferita degli escursionisti e degli speleologi udinesi. Questa zona racchiude le cavità orizzontali più lunghe di tutta la Regione Friuli Venezia Giulia. Tra queste la Grotta Vecchia di Villanova (N. 70 Fr.) presso Lusevera, chiamata dai locali col nome di Doviza, per parecchi anni è stata la più lunga d'Italia con oltre 2000 metri di sviluppo e la grotta Nuova di Villanova (N. 323 Fr.) con una profondità di 260 metri e uno sviluppo di 3665 metri.
Queste due cavità si sviluppano sovrapponendosi senza mai venire a contatto, in un sistema geomorfologico unico: tra l'arenaria e il calcare. Le acque meteoriche che cadono in quest'area vengono in buona parte inghiottite dal bacino imbrifero e dopo aver percorsa una valle chiusa il torrente Tanaloho che si è formato si immette nella Grotta di Viganti (N. 66 Fr.) chiamata anche Olobigneza presso Nimis. Sbocca quasi certamente con un dislivello di 250 metri e un percorso di oltre mille sul Iato destro del torrente Cornappo.
L'altopiano del Cansiglio polie è stato anche questo una delle prime mete degli speleologi del CSIF (Centro Speleologico Idrologico Friulano) e delle conseguenti esplorazioni. Vi si aprono oltre un centinaio di cavità naturali fra le quali la più conosciuta il Bus de la Lum (N. 153 Fr.) profonda ora 183 metri il cui sviluppo, nel 1924, risultava di 225 metri. Questa cavità sino a qualche anno fa deteneva il primato della profondità che è stato ora preso dal Bus de la Genziana (N. 831 Fr.) profondo 582 metri e con uno sviluppo di un chilometro circa.
L'altopiano di Pradis rappresentato sostanzialmente dal Monte Ciaorlec racchiude un centinaio di grotte: la più significativa tra queste è la Fontana di Rugat (N. 214 Fr.) e quella delle Grotte di La Val (N. 340 Fr.) in località Cerchia presso Clauzetto. Quest'ultima, profonda 250 metri con una lunghezza di 1800 metri, rappresenta la maggiore cavità della zona e la più interessante. In questa area si trovavano i fenomeni superficiali più imponenti che si possano notare nelle regione. Le «forre» attrezzate turisticamente si intersecano sprofondandosi sino a quasi una cinquantina di metri.
In questa località si trova anche la Fossa del Noglar (N. 243 Fr.) situata a ponente di Gerchia conosciuta anche come Cevola della Presa ha una profondità di 81 metri e una lunghezza di complessivi di 2800 metri, non ne è stata ancora ultimata l'esplorazione. A queste cavità maggiori bisogna aggiungere quelle minori che hanno però dato un grande impulso turistico al paese quali ad esempio le Grotte Verdi di Pradis fatte per opera del parroco del paese di Cerchia: don Terziano Cattaruzza. In questa cavità si trovano importanti resti preistoria della civiltà romano-gallica.
Le Valli del Cividalese infine con le profonde incisioni dello Judrio e del Natisone comprendono qualche centinaio di grotte per lo più suborizzontali che hanno acquisito una notevole importanza in quella branca della speleologia che viene data dalle cavità preisto-riche. La complessa stratigrafìa dimostra l'alternanza delle popolazioni in questa zona specialmente per quanto attinente alle penetrazioni dello orde primitive provenienti dall'Oriente.
Due sono le cavità più conosciute: la Velika Jama (N. 13 Fr.) o Grotta Grande situata presso Savogna con una profondità di 2 metri e una- lunghezza di 37 e quella turistica di San Giovanni d'Antro (N. 43 Fr.) con uno sviluppo complessivo di 2 chilometri e una profondità in altezza di 85 metri. Questa grotta racchiude un fiume di quasi 2 chilometri di lunghezza. All'interno si trovano 90 gradini attraverso i quali d si porta davanti a un muro costruito dai Longobardi.
In questa brevissima panoramica sui fenomeni carsici nella Regione Friuli Venezia si è potuto notare quale e quanto sia il patrimonio culturale, sociale, umano e naturalistico che si trova e che deve essere un grave valorizzato. La perdita anche in parte di questo patrimonio immenso non potrà che essere un grave danno non soltanto per le comunità locali ma per l'intera nazione.

Mario Bussani


In alto, un momento della spedizione nell'abisso Gortani; a destra, una suggestiva immagine della Grotta dei Coralli.


I più profondi «buchi» della Terra

Questo l'elenco delle grotte più profonde del mondo:

1410 Reseau Jean Bernard (Francia);
1332 Reseau de la Piene Saint Martin (Francia/Spagna);
1150 Avene B-15 (Spagna);
1148 Gouffre Berger (Francia);
1086 Schneeloch (Austria);
1074 Sima Ges de Malaga (Spagna);
1024 Lamprechtshofen (Austria);
980 Reseau des Aiguilles (Francia);
970 Garma Ciega-Sumidero de Cellagua (Spagna);
964 Kievskaja (Unione Sovietica);
950 Antro del Corchia (ITALIA);
926 Gouffre du Cambou de Liard (Francia);
922 Grotta di Monte Cucco (ITALIA);
920 Abisso Michele Gortani (ITALIA);
919 Reseau Felix Trombe (Francia);
914 Feuertal-Quelli (Austria);
905 Gouffre Touya de liet (Francia);
900 Purificacion (Messico).


Le grotte più profonde della regione

(dati aggiornati al 31 marzo 1980) Nella nostra regione ci sono, oltre all'Abisso M. Gortani che raggiunge dimensioni da classifica mondiale, numerose cavità che presentano profondità tali da includerle tra i maggiori abissi d’Italia e tra i più -profondi d'Europa. Segno questo che la speleologia regionale dopo esser stata culla di quella mondiale continua nel tempo a produrre uomini validi, non solo nel campo prettamente scientifico, ma anche in quello esplorativo.

NEL FRIULI-VENEZIA GIULIA:

1) Abisso M. Gortani (585 Fr-Canin) m 920
2) Abisso E. Comici (856 Fr – Canin) m 774
3) Abisso presso la Quota 1972 (1359-1361 Fr Canin) m 760 ca.
4) Abisso E. Davanzo (601 Fr – Canin) m 737
5) Abisso C. Prez (884 Fr-Canin) m 654
6) Abisso E. Boegan (555 Fr – Canin) m 624
7) Abisso M. Vianello (1249 Fr-Canin) m 585
8) Bus de la Genziana (831 Fr – Cansiglio) m 582
9) Abisso G.B. De Gasperi (1235 Fr – Canin) m 512
10) Abisso P. Picciola (595 Fr – Canin) m 489
11) Abisso di Mogenza Piccola (1677 Fr – Canin) m 400
12) Abisso M. Novelli – Grotta del Ghiaccio (557-558 Fr-Canin) m 385
13) Abisso C. Seppenboter (1395 Fr – Canin) m 355
14) Grotta di Trebiciano (17 VG – Carso Triestino) m 329
15) Meandro a N del Col delle Erbe (1259 Fr Canin) m 290
16) Abisso Alto ad W del Col delle Erbe (1058 Fr-Canin) m 280
17) Grotta Nuova di Villanova (turistica) (323 Fr – Prealpi Giulie) oltre m 260
18) Grotta dei Morti (15 VG – Carso Triestino) m 255
19) Grotta di Viganti – Grotta di Pre Oreak (66-65 Fr-Prealpi Giulie) m 254
20) Abisso S. Giusto (1708 Fr – Canin) m 254
21) Grotte di La Val (340 Fr – Prealpi Carniche) m 250
22) Gran Meandro delle Cime Mogenza (1678 Fr-Canin) m 250


NEL TRENTINO-ALTO ADIGE:

1) Abisso di Lamar m 415
2) Grotte del Calgeron (Grotta «G.B. Trener») m 380




Le grotte più lunghe

NEL FRIULI VENEZIA GIULIA

Abisso M. Gortani (585 Fr – Canin) lungh. m. 8325;
2) Grotta Nuova di Villanova (turistica) (323 Fr – Prealpi Giulie) va. 3665;
3) Fossa del Noglar (243 Fr – Prealpi Carniche) m 3480;
4) Abisso M. Vianello (1249 Fr – Canin) m 3300;
5) Grotta di S. Giovanni d'Antro (turistica) (43 Fr -Prealpi Giulie) m 3250;
6) Grotta Doviza (70 Fr – Prealpi Giulie) m 3100;
7) Abisso E. Comici (856 Fr – Canin) m 1955;
8) Grotte di La Val (340 Fr – Prealpi Carniche) m 1750;
9) Grotta di Viganti – Grotta di Pre Oreak (66-65 Fr – Prealpi Giulie) m 1700;
10) Grotta della Foos (229 Fr – Prealpi Carniche) m 1680;
11) Abisso E. Davanzo (601 Fr – Canin) m 1640;
12) Fessura del vento (4139 Vg – Carso Triestino) m 1630;
13) Meandro a N del Col delle Erbe (1259 Fr -Canin) m 1380;
14) Grotta di Canebola (1080 Fr – Prealpi Giulie) m 1360;
15) Grotte della Valcellina (327 – Prealpi Carniche) m 1237;
16) Bus de la Genziana (831 Fr -Cansiglio) m 1025;
17) Landri Scur (125 Fr – Prealpi Cantiche) m 1023.

NEL TRENTINO-ALTO ADIGE

1) Grotta della Bigonda lung. m 6700;
2) Grotta del Calgeron (Grotta «G.B. Trener») m 4400;
3) Grotta del Torrente di Vallesinella m 1250;
4) Grotta C. Battisti m 1130.


Il Timavo tra storia e leggenda

Molti furono gli scrittori romani che sino da allora si occuparono di questo misterioso fiume quali ad esempio: Posidonio, Virgilio, Livio, Vitruvio, Lucano, Plinio, Silvio Italico, Stazio, Marziale, Pomponio Mela, Vibio Sequestro, Ausonio Claudiano, Sidonio e Apollinare.
Dell'era romana si ricorda anche il maestoso tempio dedicato alle Ninfe che sorgeva nelle immediate vicinanze delle foci e che era meta di quasi tutti i viandanti e pellegrini transitanti verso l'oriente. Questa terra allora ricca di immensi boschi di querce e faggi era servita anche verso l'anno 400 a.C. a Dionisio il Tiranno per allevare numerose mandrie di cavalli. Sino a pochi decenni orsono il 24 giugno veniva fatto per questi animali un mercato a San Giovanni in Tuba: era stato istituito dal Papa Bonifacio IX nell'anno 1404. Lo stesso emanò inoltre una speciale «bolla» contro i perturbatori di questa manifestazione.
Le antiche popolazioni dimoranti il Carso monfalconese avevano dedicato i boschi esistenti alle dee Giunone Argiva e Diana Etola. Vi si trovava inoltre un altro tempio consacrato a Diomede il guerriero greco, insigne medico e insuperabile domatore di cavalli: ogni anno gli veniva consacrato un cavallo bianco. Via, via, nella storia vedono questi luoghi sempre più impegnati, così sorge sopra il terzo tempio dedicato alla dea Speranza Augusta, uno dei primi cenobi in Italia di Benedettini che subì nel tempo innumerevoli distruzioni per opera delle orde barbariche. La prima di queste avvenne nell'anno 611 da parte degli Avari, rifatto venne ridotto m macerie dagli Ungheri. Si occupò allora della ricostruzione personalmente il Patriarca di Aquileia Ulrico I che nel 1112 lo donò intatto all'Ordine di San Benedetto. Poco tempo dopo il convento subiva la più disastrosa distruzione fra tante: quella ad opera dei Turchi. A nulla sono valse le naturali difese date principalmente dall'immenso acquitrino che oggi si può notare in parte nelle paludi del Lisert oramai bonificate.
Posidonio e Plinto, antichi geografi, furono i primi a supporre un percorso sotterranei del fiume; chi però ricercò mediante esperienze dirette di dimostrare questo fenomeno fu Pietro Coppo che nel 1510 percorse tutto il Carso. Nato a Venezia, visse a Isola d'Istria e fu forse il precursore della moderna scienza della speleologia.
L'ultimo cenno dei grandi geografi fu quello fatto da Gerardo Mercatore e pubblicato ad Amsterdam nel 1637 da G. e I. Bleaw nel quale San Giovanni di Duino compare nel Novus Atlas nella carta intitolata: Karstia, Corniola, Histria et Windorum Marchia.
Da allora sino ad oggi, innumerevoli ricercatori si sono prodigati per salvare i misteri che il Timavo racchiude custodendoli ancora gelosamente.




Due tipi di grotte

Le grotte si possono sostanzialmente dividere in due tipi: quelle orizzontali e quelle verticali. Entrambi i tipi si formano per azione dell'acqua sulla roccia che viene sciolta od erosa meccanicamente. In massima parte le grotte si formano nel particolare tipo di roccia, diffusissima su tutta la terra, chiamato calcare.
Le grotte cosiddette verticali, come nel caso del Jean Bernard (dove nel marzo scorso otto speleologi francesi hanno stabilito il primato mondiale di profondità raggiungendo i 1410 metri), si trovano sempre in zone montuose. Gli abissi, infatti, si formano all'interno dei massicci poiché l'acqua piovana e di scioglimento delle nevi e dei ghiacci penetra sottoterra attraverso piccole fratture della roccia che a mano a mano allarga (è un lavoro che dura migliaio di anni).
Tendendo, evidentemente, a scendere verso il basso per sbucare nelle grosse sorgenti che di norma sono alla base delle montagne, l'acqua — come ha scritto Daniele Redaelli su un quotidiano specializzato — forma quell'intrico di pozzi (tratti di galleria verticali) e gallerie che compongono un abisso. L'acqua torna all'esterno quando raggiunge il livello della falda acquifera locale.



IL SOCCORSO SPELEOLOGICO

UNA MUTUA DEGLI ABISSI

Questa entusiasmante attività sportiva (sempre più praticata dai giovani) come molte altre non è priva di rischi e incidenti. Vediamo quali sono oggi i sistemi di soccorso e recupero di eventuali infortunati. Le squadre di volontari

di PINO GUIDI e LUCIANO BENEDETTI






Le operazioni di soccorso in grotta sono particolarmente pericolose e complesse; numerosi sono quindi gli addestramenti ed i soccorsi simulati. Nelle foto, il trasporto di feriti in un addestramento.




Un'attività con una componente sportiva molto accentuata come la speleologia – soprattutto nei primi tempi, quando veniva praticata con materiali non adeguati – non poteva andare esente da qualche incidente. Fra i più vecchi accaduti sul Carso si possono ricordare quello successo ad Eggenhöfer alla Grotta di Padridano, dove il «Rè delle Grotte» (così pare si facesse chiamare) nei primi anni del secolo scorso si infortunò seriamente ad una gamba; una serie di incidenti mortali accaduti a pastori o esploratori occasionali (nel 1879,1884, 1888) alla Grotta Noè presso Aurisina e il dramma dell'Abisso dei Morti. Questa profonda cavità presso Trieste (si apre, infatti, 700 metri ad Est della chiesa del popoloso rione San Giovanni) deve il suo tetro nome ad una tragedia avvenutavi; nell'ottobre 1866 tre operai vi persero la vita nel corso di lavori tendenti a raggiungere l'acqua di cui l'emporio triestino aveva pressante bisogno. Un quarto operaio vi morì il mese successivo nel vano tentativo di ricuperare le salme dei suoi compagni.
Lo sgomento che il luttuoso evento suscitò allora in città fu tale che le ricerche in quella grotta vennero sospese, anche se non vennero sospese le esplorazioni sotterranee, a cura di singoli ricercatori prima, poi di sodalizi all'uopo costituiti. L'elenco degli incidenti potrebbe quindi continuare, purtroppo, ma non si vuole tediare il lettore: gli basti sapere che – malauguratamente – c'è una continuità che attraverso i decenni conduce sino ad oggi.
Sui motivi e le cause dirette e indirette per cui d si fa male in grotta molto si potrebbe dire. Studi approfonditi, condotti dapprima da singoli speleologi ed in questi ultimi lustri da alcuni specialisti del soccorso, hanno comunque permesso di rilevare che in Italia oltre il 90% degli incidenti avviene per colpa dello speleologo (impreparazione, uso scorretto dei materiali, negligenza, imprudenza, uso di materiali usurati o danneggiati ecc.).
Non è quindi che le grotte siano pericolose, è il modo di andarci che può far correre dei rischi talvolta anche molto seri. Questa affermazione è confermata dal fatto che il 60% degli incidenti succede a speleologi improvvisati, digiuni di tecnica esplorativa e sovente attrezzati con materiali scadenti. Sempre su 100 infortunati in grotta 57 hanno fra i 16 ed i 20 anni, 7 fra gli 11 ed i 15 e 19 fra i 21 ed i 25: questo 83% dimostra, indirettamente, che la speleologia esplorativa è soprattutto un'attività giovane e per giovani (anche se si hanno casi di ottime esplorazioni compiute da chi i vent'anni li ha dimenticati da un pezzo). Tutte queste cifre dovrebbero, in ogni caso, far riflettere un po' chi si accinge ad eleggere quale suo hobby l'esplorazione delle caverne, consigliandolo di farlo nell'ambito di qualche gruppo organizzato, ove troverà insegnamenti, consigli, materiali e – se vuole – anche programmi di lavoro.
Per molti decenni al recupero degli infortunati provvedevano i Vigili del Fuoco (quelli di Trieste disponevano per la bisogna di mezzi idonei e di uomini preparati: fra tutti gli antesignani di quest'attività si possono ricordare Battelin, Cibron, Sigon, tanto per citare alcuni, uomini valorosi che hanno operato nella seconda metà dell'altro secolo e che sono stati forse ingiustamente dimenticati).
Nel primo dopoguerra, con il recupero di tre giovani rimasti bloccati in fondo alla Grotta Noè – 27 ottobre 1921 – effettuato da due squadre della Commissione Grotte dell'Alpina delle Giulie, coadiuvate da alcuni Vigili del fuoco, si hanno le prime avvisaglie di una nuova mentalità – confermata nel 1925 in occasione della tragedia di Raspo in cui all'Abisso Bertarelli persero la vita due uomini – per cui gli speleologi tendono ad assumersi in proprio la responsabilità e l'onere del soccorso in grotta. Sarà, però, soltanto negli anni '60 che l'esigenza di formare un corpo di specialisti in grado di intervenire rapidamente e con competenza in caso di incidente in grotta troverà la concretizzazione nella costituzione della Sezione Speleologica del Corpo Nazionale Soccorso Alpino.
In quegli anni, infatti, il notevole sviluppo della speleologia italiana aveva avuto come diretta conseguenza un notevole aumento degli incidenti e non dappertutto – e non sempre – si poteva contare sull'opera dei Vigili del Fuoco, per cui è sembrato indispensabile (oltre che giusto: non è il caso di far rischiare la pelle a chi con le grotte non ha nulla a che fare) creare un corpo autonomo, a
livello nazionale, di soccorritori. Nato nel 1965, il Soccorso Speleologico è entrato a far parte subito – come branca specializzata – del benemerito Corpo Nazionale Soccorso Alpino, (di cui si è celebrato qualche mese fa il 25° anniversario di fondazione). Oggi, a quindici anni di distanza, il Soccorso Speleologico copre tutto il territorio nazionale, con nove Gruppi – regionali o interregionali – suddivisi in una trentina di Squadre, per un totale di oltre 400 Volontari.
Nel Friuli Venezia Giulia le Squadre di Soccorso che compongono il II Gruppo furono organizzate dal compianto Marino Vianello, speleologo triestino di grande valore rimasto vittima nel gennaio 1970 – assieme ai due compagni di sventura Davanzo e Picciola – di una slavina sul monte Canin. Nel Veneto la formazione delle Squadre di Soccorso del VI Gruppo avvenne qualche anno dopo, grazie anche alla volontà di uomini quali Castellani, Camon, Cargnel, sonetti ed aiutati in quest'opera da tutte le componenti valide della speleologia veneta.
Nel Trentino il discorso è iniziato in questi ultimi anni, anche se i risultati conseguiti sul piano organizzativo sono degni di una struttura ben più collaudata. Molti di quanti si resero meritevoli fondando ed organizzando queste Squadre di Soccorso ora non ne fanno più parte: la morte, i troppi anni per un'attività pesante e rischiosa, nuovi interessi li hanno allontanati. Il fatto che il passaggio da una generazione all'altra sia avvenuto senza traumi è forse la miglior riprova non solo che chi ci ha preceduto ha lavorato bene – e di questo siamo grati – ma altresì anche che il Soccorso Speleologico sia divenuto parte integrante della realtà speleologica italiana, di cui condivide – talvolta anche condizionandole – le fortune.
Sul piano pratico i Volontari del Soccorso hanno dimostrato la loro perizia in numerose operazioni di recupero, intervenendo in forze svariate volte sul monte Canin ed in altre parti del Friuli (abisso Davanzo, abisso Gortani, Meandro Soffiante del Col delle Erbe, grotta di La Val, grotta di San Giovanni d'Antro, grotta di Villanova), sul Carso (grotta Natale, grotta dei Cacciatori, grotta Ercole, grotta delle Gallerie, Fessura del Vento, grotta Plutone) e sulle Prealpi ed Alpi Venete (grotta di Ponte Subiolo, Spurga delle Cadene, Bus de la Rana, Tageloch di Fosa, Spaluga di Lusiana. Grotta della Cava di Arsiero, Abisso di Cea, abisso di Malga Fossetta, Voragine del Coston). In molti di questi interventi i Volontari hanno avuto l'appoggio di vari enti (Vigili del Fuoco, Carabinieri, Esercito, Soccorso Aereo ecc.).
Volontari. Già, perché chi fa parte del Soccorso Speleologico lo fa di sua spontanea volontà, per libera scelta, e gratuitamente. Gratis al punto che, in qualche caso, quando va a soccorrere qualcuno che s'è fatto male in grotta deve perfino rimetterci le spese di trasporto, materiali, giornate di lavoro perduto. Qualche regione ha promulgato delle leggi che, in parte almeno, coprono le spese, ma la situazione è ben lungi dall'essere ottimale (talvolta, infatti, per cause diverse ma riconducibili alla lentezza della macchina burocratica – che procede con un certo rilento nonostante la buona volontà di molti funzionari – bisogna attendere anche due o tre anni questo rimborso parziale).
Il Soccorso Speleologico è oggi una realtà operante, un servizio pubblico (quando viene la chiamata non si domanda chi s'è fatto male ma dove bisogna recarsi, non chi pagherà 1e spese, ma che materiali bisogna portare) gestito direttamente dai suoi stessi componenti, non vincolato ad associazioni o partiti. Un specie di mutua degli abissi: una mutua povera forse di fondi, ma non di idee, di coraggio di abnegazione.

Pino Guidi




QUESTI I GRUPPI SPELEOLOGICI

Circolo Speleologico Idrologico Friulano – Via Beato Odorico, 3 33100 UDINE
Gruppo Speleologico Idrologico – Palazzo della Motta 16/A – 33170 PORDENONE
Gruppo Speleologico Pradis – 33090 PRADIS
Gruppo Speleo .L.V. Bertarelli. – Via Rossini. 13 – 34170 GORIZIA
Gruppo Speleologico Goriziano – Borgo Castello 14 -34170 GORIZIA
Gruppo Speleologico Monfalconese -Via S. Ambrogio, 25 – 34074 MONFALCONE
Gruppo Spel. Monfalconese G. Spangar–Via D. d'Aosta, 102-34074 MONFALCONE
Gruppo Speleologico O. Miniassi – Via Volta, 43 – 34074 MONFALCONE
Associazione Friulana Ricerche – 33017 TARCENTO
Commissione Grotte E. Boegan – Piazza dell'Unità d'Italia, 3 – 34121 TRIESTE
Gruppo Grotte – Associazione XXX ottobre – Via Pellico, 1 – 34122 TRIESTE
Club Alpinistico Triestino – Via Frausan, 2/A – 34137 TRIESTE
Gruppo Grotte .C. Debelijak. – c/o Brema, via Cadorna, 25 – 34123 TRIESTE
Gruppo Speleologico S. Giusto – Via S. Spiridione, 1 – 34121 TRIESTE
Raggruppamento Escursionisti Speleologi Triestini – Via Corridoni, 17 – 34131 TRIESTE
Società Adriatici di Speleologia – Via Trento, 1 – 34131 TRIESTE
Società Geospeleologica della Soc. Adriatica di Scienze-Via Trento, 1-34131 TRIESTE
Gruppo Speleologico di Sacile – Via Garibaldi, 46 – 33077 SACILE
Centro Ricerche Carsiche C. Seppenhofer – Via Ristori, 31 – 34170 GORIZIA
Centro Studi Carsici – Scala Santa, 58 – 34135 TRIESTE
Gruppo Triestino Speleologi – Via Lamarmora, 24 – 34139 TRIESTE


I GRUPPI GROTTE NEL TRENTINO-ALTO ADIGE

Gruppo Grotte S.A.T. E. Roner- – Corso Rosmini, cond. Venezia – 38067 ROVERETO
Gruppo Speleologico S.A.T. Arco – c/o N. Ischia, via Scuderie, 7 – 38062 ARCO
Gruppo Speleologico S.A.T. Lavis – Via III Bristol, 14 – 38015 LAVIS
Gruppo Grotte S.A.T. Fressano – Via Filati – 38015 PRESSANO LAVIS
Gruppo Speleologico Selva – 38050 SELVA DI GRIGNO
Gruppo Grotte Castel Tesino – e/o E. Sordo, via Venezia 38053 CASTEL TESINO
Gruppo Grotte Baita – 39100 BOLZANO



Nella pagina accanto, in alto, una breve sosta per rifocillare il ferito durante un recupero in grotta; sotto, un accompagnatore guida una barella lungo il pozzo. Qui sopra, un'altra fase dell'addestramento degli uomini del Soccorsa Speleologico.






Volontari fino in fondo

I volontari del Corpo di Soccorso Speleologico, scelti fra gli uomini più attivi dei Gruppi Speleologici del territorio nazionale, operano nelle zone di loro competenza in squadre e Gruppi organizzati secondo il regolamento del Corpo Nazionale Soccorso Alpino.
Esplicano la loro attività con interventi diretti in caso di incidenti in grotta, svolgono una costante propaganda antiinfortunistica, compiono esercitazioni per sperimentare mezzi e tecniche previsti in una operazione di soccorso.
Il volontario, un elemento di provata capacità speleologica, non si limita a mettere la propria esperienza al servizio del Corpo di appartenenza ma si tiene costantemente al corrente su ogni variazione di tecnica frequentando i Corsi Nazionali di perfezionamento.
Partecipa ai corsi di pronto soccorso che lo mettono in grado di diagnosticare le lesioni più importanti e frequenti e di prendere i primi provvedimenti.
Esamina i mezzi meccanici che vengono usati dagli speleologi durante le esplorazioni consigliandone i tipi più idonei. Collauda e indica il carico di rottura delle corde affinché lo speleologo non abbia a correre inutili rischi.
Non tralascia l'occasione di partecipare alle conferenze internazionali sul soccorso speleologico per confrontare i metodi usati dalle maggiori organizzazioni che dispongono di cospicui mezzi e di sovvenzioni.
Deve provvedere a mantenere un perfetto equipaggiamento e sostenere anticipatamente tutte le spese inerenti al consumo del carburante, al vettovagliamento, ai mezzi di illuminazione, alle giornate di lavoro perduto ecc. in caso di intervento.
Per obbligo statutario i volontari devono compiere almeno due esercitazioni all'anno. Essi si riuniscono normalmente presso una cavità la cui formazione morfologica li mette in grado di effettuare tutti gli esercizi predisposti per uniformare le tecniche allo scopo di coordinare razionalmente le fasi delle operazioni di soccorso.
Il programma dell'esercitazione deve prevedere tutti i casi ipotetici di infortunio che possono verificarsi nelle cavità.
Per i casi più comuni, poniamo la frattura di qualche arto o una distorsione, il ferito che con una permanenza prolungata in un ambiente avverso (umido, freddo, buio) deve lottare contro l'incombente stato di shock, deve venir trasportato immediatamente all'esterno dai propri compagni con il sistema del «mezzo improvvisato». Con questa tecnica, di illimitata possibilità di applicazione e messa in atto con mezzi di fortuna in genere a propria disposizione, uno o due compagni da soli possono risolvere situazioni fino a qualche anno fa ritenute impossibili. Oggi si può assistere alla dimostrazione di un ricupero di un ferito eseguita da un solo uomo anche lungo una verticale di 100 metri.
Per i casi più gravi si deve necessariamente ricorrere alla barella studiata per l'uso in cavità: poco ingombrante, leggera e di ottima manovrabilità, si presta ad essere recuperata sia in posizione verticale sia in posizione orizzontale. Anche in questo caso, pochi uomini, sufficientemente addestrati e grazie all'uso delle tecniche più avanzate, possono provvedere al trasporto del ferito lungo interminabili gallerie a profondità vertiginose.
Concludendo possiamo tranquillamente affermare che il Soccorso Speleologico nell'Italia nord orientale è all'altezza della fama e della preparazione che gli speleologi delle nostre regioni si sono faticosamente guadagnati in decenni di duro e appassionato lavoro: è uno strumento ben accordato, a disposizione della società, a cui ci si deve rivolgere senza indugio in caso di bisogno.

Luciano Benedetti





UNA ORGANIZZAZIONE DEL CLUB ALPINO ITALIANO

A SCUOLA DI GROTTA

di ANGELO ZORN

L'idea di una scuola nazionale di speleologia, istituita poi nel 1959, partì dalla Commissione Grotte Eugenio Boegan della Società Alpina delle Giulie di Trieste, che è il primo gruppo speleologico costituitesi in Italia

In alto, maniglia Jumar in uso nelle risalite: la corda viene bloccata dai dentini dì acciaio; a destra, discensore aperto per mostrare il percorso della corda.

Nella seconda metà degli anni Cinquanta la speleologia italiana era ormai risorta dalla catastrofe causata dal secondo conflitto mondiale, che ne aveva quasi completamente distrutto i mezzi e disperso gli uomini che fino ad allora ne erano stati i protagonisti.
In quegli anni, alcuni dei maggiori gruppi speleologici avevano già istituito dei corsi di speleologia locali con un indirizzo teorico-pratico, ma queste iniziative alquanto isolate erano valide soltanto nell'ambito locale ed utili solamente ai gruppi grotte stessi, che elevavano così il livello tecnico-culturale dei loro aderenti e traevano dai corsi gli elementi. più promettenti per inserirli nella loro realtà sociale.
Nelle zone dove però mancava un gruppo attivo ed operante con tecniche adeguate, non c'era alcuna possibilità per i giovani desiderosi di dedicarsi alla speleologia di partire con un minimo di cognizioni teorico-pratiche e di inserirsi nella speleologia attiva senza dover passare quella trafila di esperienze e di delusioni ormai superate dalle moderne organizzazioni allora operanti.
Da tutte queste considerazioni sorse l'idea di creare una scuola a carattere nazionale, la quale avrebbe organizzato dei corsi a cadenza biennale a cui potessero ricorrere i giovani di tutta Italia desiderosi di approfondire e perfezionare le loro conoscenze in campo speleologico, o di iniziare questa affascinante attività. Lo scopo principale della scuola è dunque la possibilità di dare ai giovani ai primi passi con la speleologia le nozioni basilari di una corretta tecnica esplorativa e di venire a contatto con quelle persone che si interessano a tutte quelle specialità di studi che abbracciano il campo speleologico e che devono con il tempo venire a formare quella istruzione di base che uno speleologo deve possedere.
Non è una semplice coincidenza che l'idea di una scuola nazionale di speleologia sia partita dalla Commissione Grotte Eugenio Boegan della Società Alpina delle Giulie, sezione di Trieste del Club Alpino Italiano, primo gruppo speleologico costituitesi in Italia con lo scopo di studiare i fenomeni carsici e la cui attività dura ininterrotta dal 1883, anno della sua fondazione, e nelle cui file militarono alcuni fra i maggiori speleologi italiani.
La speleologia, nata a Trieste nei primi decenni del secolo scorso, è ormai radicata nel tessuto socio-culturale cittadino, ed il Carso che fa da contorno alla città racchiudendo nei suoi confini oltre 1500 grotte (che vanno dalla semplice cavernetta all'abisso di notevole profondità, alla grotta attrezzata turisticamente), da spazio ad un'attività che viene svolta soddisfacendo sia il semplice grottista che scende domenicalmente a vederne le bellezze, sia lo studioso che dalle sue rocce trae materia di studio e di scienza. Non poteva non nascere l'idea – o meglio, la necessità – di creare una scuola in cui chi ha un bagaglio di esperienze possa metterlo a disposizione di chi ha per il momento soltanto dell'entusiasmo.
Il consiglio centrale del CAI valutò positivamente la proposta fatta dalla Commissione Grotte, ed il suo comitato scientifico, diretto allora dal professor Nangeroni, affidò alla sezione Trieste il compito di organizzare il «Primo corso nazionale di speleologia» della scuola nazionale di speleologia del Club Alpino Italiano: era il 1959.
A questo corso altri ne seguirono a scadenza inizialmente biennale, mettendo in contatto speleologi di tutte le regioni italiane, creando interesse per la ricerca speleologica in zone dove essa era praticamente sconosciuta, confrontando i sistemi esplorativi allora in uso presso i vari gruppi grotte e cercando fin dal suo inizio di uniformare sia materiali sia tecniche. Proseguendo la strada iniziata nel 1959, la scuola nazionale di speleologia del CAI si rese conto che doveva istituire un corpo di specialisti che si facesse carico di insegnare e promuovere la tecnica speleologica a tutti i livelli, e che desse serietà ed affidabilità alla scuola stessa. Da questa idea sorsero gli istruttori nazionali di speleologia del CAI.
Il primo nucleo di questi specialisti fu formato da speleologi italiani che avevano già insegnato ai corsi.di speleologia e che vennero nominati, su proposta dei vari Gruppi Grotte, dal comitato scientifico del CAI. A questo primo, nucleo, si aggiunsero altri istruttori nominati in seguito ad un corso speciale per istruttori nazionali tenutosi a Trieste nel 1969, il primo di questo tipo ed articolato in modo che il futuro istruttore dimostrasse le proprie capacità esplorative, culturali ed organizzative per poter dirigere ed insegnare ai corsi sezionali della scuola nazionale di speleologia che si andavano organizzando in seguito alle nuove esigenze sorte nei vari gruppi grotte del CAI.
Con la creazione, nel 1969, della figura dell'istruttore nazionale, e con l'appoggio della neo-costituita sottocommissione per la speleologia, la scuola nazionale continuò il suo cammino organizzando i corsi nazionali di speleologia, denominati in forma più moderna Corsi nazionali di tecnica speleologica, per differenziarli da quelli sezionali, che se pur inseriti nella scuola nazionale, sono dei corsi a carattere preminentemente locale.
Le vicende speleologiche di questi ultimi anni, la creazione nell'ambito del Club Alpino Italiano della commissione centrale per la speleologia, di cui la scuola è una delle componenti principali, l'istituzione di corsi di aggiornamento per gli istruttori nazionali e di accertamento per i nuovi aspiranti I. N., hanno portato la scuola ad una uniformità di mezzi e di idee alla quale il Club Alpino Italiano guarda con grande interesse, tanto che gli istruttori nazionali di speleologia compaiono ora nella proposta di legge che deve definire giuridicamente la figura degli istruttori nazionali di alpinismo, di sci-alpinismo e speleologia.
Dal primo corso del 1959, che vide la partecipazione di allievi provenienti da Palermo, Altamura, Terni, Perugia, Verona, Udine, Trieste, e che ebbero come istruttori Bruno Boegan, Luciano Saverio Medeot, Marino Vianello ed altri membri della Commissione Grotte, altri ne sono stati tenuti a Trieste (in totale sei) ed a Perugia (in totale tre), mentre di corsi per istruttori nazionali ne sono stati tenuti due a Trieste ed uno a San Vittore di Genga. I neo istituiti corsi di aggiornamento per istruttori nazionali si sono svolti a Monte Cucco (Perugia) ed a Roncobello (Bergamo), entrambi nel 1979.




 
Qui accanto, una illustrazione tratta dal libro «2000 grotte»: a sinistra la comoda salita su una scala ben disimpegnata dalla corda di sicurezza; a destra, gli impacci di una scala attorcigliata; nella pagina accanto, battitore per chiodo “Spit” per inserire chiodi a pressione nelle pareti delle grotte.



Da quanto precedentemente esposto emerge la vitalità della scuola nazionale di speleologia che nella sua ormai ventennale storia ha saputo infondere agli speleologi italiani quell'entusiasmo cui fanno riscontro la grande diffusione di cui gode oggi la speleologia, il crearsi di Gruppi Grotte CAI in zone dove fino a pochi anni fa la speleologia era praticamente sconosciuta, l'interesse di enti ed associazioni verso questa attività che racchiude in sé sia la parte meramente sportiva sia la parte tecnico-scientifica alla quale si dedica una sempre maggior componente della realtà speleologica nazionale. Non ultima l'utilità sociale della speleologia per le ricerche idriche, paleontologiche, geologiche in varie zone della nostra penisola. Possiamo dire che quanto è stato fatto con sacrifici personali di tempo e denaro dai vari istruttori nazionali non si è perso nel vento ma ha inciso in modo indelebile nella speleologia italiana portandola a traguardi che solo pochi anni fa erano insperati.
Sono quattordici i corsi sezionali di speleologia organizzati con cadenza annuale – dal 1965 -, che la Commissione Grotte Eugenio Boegan ha indetto nell'ambito della scuola nazionale di speleologia del CAI, per permettere ai giovani desiderosi di avvicinarsi alla speleologia di apprendere una preparazione di base che li metta in grado di affrontare adeguatamente i problemi speleologici che potranno incontrare nel corso della loro attività.
A queste persone in gran parte studenti con una età media di circa 18 anni e provenienti in massima parte dalla nostra città, anche se quasi ogni anno vi sono degli allievi di altre località della nostra regione, viene insegnata la corretta tecnica esplorativa con una serie di uscite svolte in grotte scelte per la loro difficoltà e nelle quali gli allievi sotto la guida costante degli istruttori possono mettere in pratica quanto viene loro insegnato durante le lezioni teoriche in aula.
Queste lezioni oltre ad illustrare, con l'aiuto dei moderni mezzi audio visivi, i vari aspetti tecnico-esplorativi, permettono all'allievo di sentire dalla viva voce di studiosi l'esposizione in forma piana dei maggiori problemi scientifici che la speleologia studia e degli elementi di geologia sui quali la speleologia si basa.
Da un anno a questa parte, la scuola è stata rinnovata immettendo nell'insegnamento pratico l'uso delle tecniche esplorative denominate usualmente su «sola corda». Questa tecnica veniva negli scorsi anni solo illustrata in aula e durante un'uscita in una palestra di roccia dove la si faceva provare agli allievi senza però insistere su tale tecnica. L'esperienza acquisita durante il quattordicesimo corso nazionale di speleologia ha fatto sì che il preventivato corso sarà indirizzato quasi esclusivamente sulle nuove tecniche.
A tale scopo la direzione della scuola nazionale di speleologia del CAI ha già dato il suo permesso in merito, definendo nei modi e nei tempi il corso stesso.
In questi quattordici anni di corsi sezionali, sono passati oltre 300 allievi, con una media di oltre 25 allievi per corso. Vogliamo qui ricordare gli istruttori nazionali e sezionali deceduti in questi anni, il cui ricordo e la cui opera sono rimasti indelebili nella storia della speleologia triestina. Marino Vianello, che ne fu il primo direttore, Enrico Davanzo, istruttore nazionale che dedicò tanta passione alla scuola. Paolo Picciola, giovane istruttore ed entusiasta speleologo che assieme ai primi due trovò tragica morte fra le nevi del Canin, Claudio Cocevar e Tullio Tommasini, entrambi direttori della scuola ed entrambi deceduti in seguito ad incidenti della strada. Oltre a questi amici scomparsi, vogliamo ricordare e ringraziare quegli speleologi (dall'aiuto istruttore, al professore che in aula o sul terreno cercano di infondere agli allievi nuove conoscenze) che danno la loro appassionata opera ai corsi di speleologia.

Angelo Zorn



DALLA SCALA DI CORDA AL DRESSIER

Nella Bibbia degli speleologi degli anni eroici (in quel libro oggi introvabile che porta il nome di «2000 grotte») alla tecnica delle esplorazioni è dedicato un capitolo che ci permette di fare il punto sui progressi compiuti dalle attrezzature in cinquanta anni di speleologia.
In quell'epoca (siamo nel 1926) l'esploratore è dotato di attrezzi così descritti: «In testa porterà un elmetto di acciaio, di quelli in uso militare, che deve avere anteriormente un portacandela di forma elementare, deve indossare camiciotto, mutande e calze di lana e sopra un abito qualsiasi uno scafandro da meccanico di tela robusta: sono da escludersi i colletti inamidati e chi porta occhiali è bene li abbia a stanghetta… l'esploratore non userà mai una scala di corda senza essere attaccato alla corda di sicurezza…un buon parco attrezzi deve esser costituito da scale di corda formate da due corde parallele e quattro trefoli nelle quali sono incastrati e legati con spago dei gradini di legno».
Ora la situazione è cambiata (ma non di molto): la lampada è rimasta un fanale di acetilene, in testa ci si pone un casco da roccia, ma le scale hanno subito un processo che le ha portate prima a passare dalla corda al cavo d'acciaio (da sei a tre millimetri) e dai gradini di legno a quelli di lega leggera. Oggi anche questo attrezzo è stato posto in soffitta – almeno nelle esplorazioni di punta – e si usa unicamente una corda (non deve essere assolutamente estensibile) di 10, 12 millimetri di diametro abbinata a maniglie Gibbs, Dressier, Croll, Jumar.





EMILIO COMICI SPELEOLOGO


DAGLI ABISSI ALLE VETTE

Prima di dedicarsi esclusivamente alla montagna, Comici aveva iniziato a scendere nelle cavità del Carso.
Nel 1926, assieme a Giacomo Dimini e Giulio Benedetti, conquistò il record mondiale di profondità.

di CLAUDIO ERNE'

Qui sopra, Emilio Comici (con il cappello degli alpini e il maglione bianco nero della XXX ottobre) con Antonio Beram sull'altopiano del Cansiglio, nei pressi del Bus de la Pum; a destra un ritratto dello scalatore triestino.

Il nome di Emilio Comici richiama alla mente, sia negli appassionati di montagna, sia nei profani, arrampicate al limite dell'impossibile compiute tutte con apparente facilità, quasi che – per un attimo – la legge di gravita si fosse astenuta dall'esercitare il suo potere sul biondo scalatore triestino; vengono pronunciati con rispetto (forse con devozione) nomi noti e dimenticati di vie percorse in solitario o in buona compagnia: la Cengia degli Dei sul Jof Fuart, la direttissima alla Nord della Cima Grande di Lavaredo e la scalata di quello che era chiamato in altri tempi Campanile Italo Balbo nel gruppo del Sassolungo. Di grotte e abissi nemmeno l'ombra.
Pochi sanno e ricordano – al di fuori del ristretto ambiente degli addetti ai lavori – della sua attività di speleologo che lo portò nel settembre del 1926 a conquistare il record mondiale di profondità assieme a Giacomo Dimini e a Giulio Benedetti (con cui successivamente Comici compì la prima direttissima alla Civetta).
A proposito di questo scalatore Emilio Comici aveva scritto nel suo «Alpinismo eroico»: «L'amico Benedetti che mi asseconda nell'impresa è giovanissimo: diciotto anni; ha però l'esperienza degli abissi del Carso. Questi appunto lo hanno ben temperato al pericolo e lo hanno munito di un sangue freddo ammirabile che lo rende un arrampicatore non comune». Comici aveva incominciato ad arrampicarsi alla rovescia (ad andare per grotte) nel primo dopoguerra, quando in seno alla XXX ottobre fu costituito un gruppo di «grottisti». Le mete delle sue prime escursioni – con intenti puramente sportivi – furono 1e cavità del Carso: e tanti come, quando e perché incominciarono ad affacciarsi nella mente degli esploratori e sul libro della sezione, diligentemente Comici annota: «Da oggi la nostra attività non avrà più carattere sportivo; uniremo alle nostre esplorazioni i rilievi planimetrici, contribuiremo al coordinamento del catasto delle grotte, provvederemo a dare relazione delle osservazioni che faremo sui fenomeni carsici. La XXX ottobre farà della vera speleologia……..
Vengono individuate e sistematicamente esplorate molte cavità: dall'Istria all'altopiani di Ternova, dalla selva di Piro all'altopiano del Cansiglio (le successive spedizioni triestine vi torneranno appena negli Anni Sessanta); rilievi topografici e le relazioni trovano spazio nei bollettini scientifici e, quel che più conta, tra il grande pubblico dei giornali. Comici scrive:
«Siamo scesi nella grotta dei Pini bruciati presso Monte Spaccato con altri cinque compagni ed abbiamo toccato i 270 metri di profondità… Anche questa volta l'abbiamo fatta franca con quei pochi arnesi che chiamiamo pomposamente «attrezzi speleologici», e giacché non possediamo di meglio sacrificheremo settimanalmente qualche lira per acquistare l'occorrente….» Con nuove scale (manici di scopa di frassino e castagno per gli scalini, manila per le corde) e con l'elmetto da fante e la candela vengono esplorati l'abisso di Semi (270 metri), l'abisso della Selva di Piro (290 metri) e l'abisso Bertarelli fino alla profondità di trecento metri.
Come dicevo, Comici conquistò il record mondiale di profondità strappandolo ai concittadini della Commissione grotte dell'Alpina delle Giulie. La impresa fu irta di difficoltà e mobilitò tutte le risorse umane e tecniche della XXX ottobre dall'aprile al settembre del 1926. L'abisso del record, era ed è situato nei pressi di Montenero d'Idria; si tratta – come dire – di una grotta viva, di una cavità in cui il processo di erosione dell'acqua prevale sul processo di sedimentazione. Non ci sono – per intenderci – stalattiti, ma una serie ininterrotta di pozzi, strettoie, inghiottitoi in cui l'acqua corrente fa da padrona. Cascate, polle, laghetti e tortuosi torrentelli si perdono nei meandri e poi acqua e ancora acqua, il tutto ad una temperatura tra i 5 e i 7 gradi.
Comici con i suoi due compagni si spinge fino a quattrocento, quattrocentocinquanta e poi quattrocentoottanta metri di profondità: la via è sbarrata dopo 24 ore di ininterrotta esplorazione: c'è un laghetto gelido di venti metri e poi solo fessure impraticabili. E' il fondo (cinquecento metri) della grotta, la più profonda cavità in cui un uomo abbia mai messo naso, il record del mondo.
Dopo il trionfo incomincia per Comici un periodo di riflessione di cui rimangono solo pochi cenni nei suoi scritti: Emilio non ama parlarne, risponde a monosillabi, lui di solito così pronto all'introspezione e all'analisi di ogni possibile motivazione. Solo qualche anno più tardi -in una conferenza – il pubblico ottiene una spiegazione sull'abbandono della speleologia.
«In quell'epoca – dice Comici, e l'auditorio di alpinisti, gerarchi, curiosi e belle donne pende dalle sue labbra – a Trieste era molto popolare l'esplorazione delle grotte carsiche; e subito sorse in me la passione di quelle esplorazioni nelle viscere della terra. Ricordo di sfuggita che all'esplorazione del famoso Bus de la Lum sull'altipiano del Cansiglio alcuni amici dell'Alpina delle Giulie mi chiesero: – Comici, perché non vieni con noi in montagna? – Un giorno accolsi l'invito e immediatamente sentii rivelarsi in me quella fiamma che ore è quasi tutta la ragione e quasi tutto il fine della mia vita».
Il passaggio dalla speleologia all'alpinismo – come abbiamo visto – era stato lento. meditato, quasi indolore, mimetizzato nel gradualismo per evitare reazioni di rigetto; ancora qualche esplorazione (all'abisso Federico Prez a Clana e alla terribile Med'Jama) poi più nulla. Nel 1929 Emilio Comici sposa la montagna: indissolubilmente.

Claudio Ernè


Qui sopra, una foto che testimonia dei buoni rapporti tra gli esploratori della Alpina delle Giulie e la XXX ottobre, entrambe di Trieste. Si riconoscono Gianni Cesca (primo a destra), Guerrino Redivo (seduto a destra), Antonio Beram (al centro in seconda fila) Bruno Boegan (terzo da sinistra) e (seduto a sinistra) Emilio Comici.





ANDAR PER GROTTE

QUASI UNA MAPPA DEL TURISMO PROFONDO

Nel Friuli Venezia Giulia ci sono quattro cavità attrezzate: le grotte Verdi di Pradis di Sotto, La Nuova di Villanova, quella di San Giovanni d'Antro ed infine la grotta Gigante in provincia di Trieste

di FULVIO GASPARO





 


Qui accanto, gruppo stalagmitico sulla parete destra della grotta Gigante; qui sotto, nella stessa grotta, “Palazzo delle Ninfe”; in basso, “Lo Gnomo” e, nella pagina a fianco “II viale delle Colonne”


Da quanto si è già visto, viviamo in una regione ricchissima di fenomeni carsici profondi, dove gli studi speleologici – sono di conseguenza – molto avanzati. A questa situazione – ed il caso è abbastanza singolare – non fa riscontro un adeguato numero di cavità attrezzate per la visita del comune turista, che, soprattutto negli ultimi anni, ha dimostrato imo spiccato interesse per le bellezze del mondo sotterraneo, ove queste sono valorizzate da opportune opere di attrezzatura delle grotte.
Le cause di questo fenomeno sono da ricercarsi soprattutto nel fatto che le aree carsiche e le grotte maggiori, sono generalmente ubicate in zone-lontane dai grandi centri ed importanti vie di comunicazione che possano assicurare una costanza, seppur stagionale, di presenze. Sul Carso triestino, che possiede i requisiti citati più sopra, è invece il tipo-di carsismo profondo – dato m massima parte da cavità verticali costituite da successioni di pozzi – che limita le possibilità di sfruttamento delle grotte come risorsa turistica.

Limitando il discorso al Friuli Venezia Giulia, quattro sono le cavità attrezzate: le grotte Verdi di Pradis di Sotto in provincia di Pordenone, le grotte Nuova di Villanova e di S. Giovanni d'Antro in provincia di Udine e la Grotta Gigante in provincia di Trieste.
Sul Carso Triestino era stata resa accessibile, all'inizio degli anni '70, anche la Grotta delle Torri di Slivia (Aurisina), sita presso la SS. 202, attualmente abbandonata e, purtroppo, in più punti danneggiata da vandali.

Grotte Verdi di Pradis di Sotto. Si trovano presso l'abitato di Cerchia (Clauzetto), 20 chilometri a nord di Spilimbergo. Presentano un interesse speleologico molto modesto, essendo date da brevi caverne suborizzontali, con opere di adattamento presso gli ingressi.
Nella caverna maggiore è stata posta una Madonna, quale protettrice del luogo.
A differenza delle Grotte Verdi, una notevole importanza presenta la sottostante forra del Torrente Cosa, profonda in alcuni punti oltre quaranta metri, che è stata resa accessibile con una serie si scalinate e sentieri in calcestruzzo. Al fondo si diramano più sentieri: quello che risale il corso d'acqua porta agli ingressi delle caverne I e II nella forra del Torrente Cosa, due interessanti grotte a percorso pianeggiante, che richiedono per la visita mezzi di illuminazione propri.
Il flusso turistico, di notevoli proporzioni nella buona stagione, è legato soprattutto al culto della Madonna delle grotte. L'accesso alle grotte è libero; all’illuminazione provvede un impianto elettrico a gettoniera posto presso l'ingresso.

Grotta di S. Giovanni d'Antro. Si apre a metà di una ripida parete rocciosa, presso la borgata di Antro (Pulfero), 15 chilometri a Nord-Est di Cividale.
Si tratta di una delle più estese grotte del Friuli, superando i tre chilometri di sviluppo planimetrico.
Il tratto accessibile al turista è costituito dai primi 250 metri di galleria,, percorsi da un comodo sentiero. Ma l'interesse maggiore è dato dalle opere del XIII-XV secolo che occupano il tratto iniziale della grotta e si sviluppano su due piani, formando il presbiterio di una cappella, una sacrestia ed altre opere accessorie, costruite con mirabile perizia affinché le piene periodiche del torrente che percorre la grotta non raggiungano i luoghi di culto. L'affluenza dei visitatori è limitata; per la visita rivolgersi alla Parrocchia di Antro, presso il parcheggio.

Grotta Nuova di Villanova. Gli ingressi della cavità (quello naturale non è praticabile), si trovano nell'abitato di Zaiama (Lusevera), dieci chilometri a nord-est di Tarcento.
La grotta, scoperta ed esplorata nel 1925, si dirama per oltre tré chilometri e mezzo, dei quali circa 800 metri sono attrezzati con un sentiero turistico e permettono di raggiungere la profondità di 130 metri, ove sbocca i] secondo ingresso artificiale, di recente ultimazione .e non ancora aperto al pubblico.
Quasi tutto il percorso turistico si svolge in grandi gallerie scavate al contatto fra brecciole calcaree ed arenarie; al fondo scorre un torrentello con modesta portata. I vani più suggestivi, ornati da belle concrezioni, si trovano nella cosiddetta galleria Paradiso, a 125 metri di profondità.
Il flusso dei visitatori è attualmente limita-tissimo, anche per la mancanza di impianto di illuminazione elettrica (la visita si svolge alla luce delle lampade ad acetilene); per visitare la grotta bisogna rivolgersi al sig. Dante Negro, a Zaiama.

Grotta Gigante. Si apre nei pressi del borgo omonimo, dieci chilometri a nord di Trieste. E' formata da un'unica immensa caverna, adorna di splendide concrezioni calcitiche, date soprattutto da stalagmiti e colate parietali. Conosciuta fin dai tempi remoti (nella galleria che segue all'Ingresso Alto abitava l'uomo preistorico), venne esplorata per la prima volta nel 1839 ed a più riprese, dopo il 1890, da speleologi triestini.
Nel 1908, ad opera del Club dei Turisti Triestini, venne aperta al pubblico, superando non poche difficoltà di carattere tecnico. Dopo la prima guerra mondiale la grotta passò alla Società Alpina delle Giulie, attuale proprietaria. Nel periodo fra le due guerre l'attività turistica nella Grotta fu limitata a periodiche illuminazioni popolari, mentre una netta ripresa di interesse si ebbe dopo il 1945: nel 1957 venne inaugurato un impianto di illuminazione elettrica provvisorio, nel 1959 quello definitivo. Nuovi lavori sono stati eseguiti in seguito allo scopo di rendere accessibili altri vani della cavità e di completare il sentiero con un percorso «ad anello» sfruttando due dei tre ingressi naturali della grotta.
Un particolare interesse presenta il museo speleologico, situato presso la biglietteria, ove sono esposte collezioni paleontologiche, paleontologiche, biologiche e numerose foto e disegni riguardanti la speleologia nelle nostra regione.
La cavità a aperta tutti i giorni, con la sola eccezione dei lunedì non festivi; la frequenza dei visitatori nel 1968 è stata di oltre 100.000 unità. Anche le altre due regioni di quest'angolo d'Italia hanno delle grotte attrezzate per la visita dei turisti, anche se in misura molto minore rispetto al vicino Friuli Venezia Giulia.


Nel Trentino c'è la Grotta di Castel Tesino (di cui parlano più diffusamente nel prossimo servizio Paolo Borgatta e Claudio Brondolise), ubicata al confine fra i comuni di Castel Tesino e Lamon. E' costituita da un insieme di gallerie lunghe 600 metri ed in parte percorse da un torrentello. Le sue attrezzature sono state seriamente danneggiate dall'alluvione dei 1966.
II Veneto, più ricco di massicci carsici, dispone di una sola grotta turistica, anche se forse si tratta della grotta turistica più vecchia d'Italia. La Grotta Parolini, infatti, fu esplorata da A. Parolini – patrone del fondo in cui si apre – nel 1822 ed aperta alla curiosità dei turisti nel 1933. Si tratta, in pratica, di una spaziosa, anche se non molto alta caverna occupata da un ampio bacino d'acqua, per cui la visita si fa in barca (come nella famosa Grotta Azzurra di Capri). Si apre, assieme ad altre grotte molto belle anche se di minor interesse turistico, sulla sponda destra del Brenta, non lungi da Bassano del Grappa
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Fulvio Gasparo





LE GROTTE DA VISITARE

SULLE ORME DELL'ORSO SPELEO

di PAOLO BORGATTA E CLAUDIO BRANDALISE

La grotta di Castello Tesino (in provincia di Trento) è divisa in due parti da «La Colonna del Ciclope»: nella prima stalattiti e stalagmiti dalle forme armoniose, nella seconda un'atmosfera di sapore dantesco. Vi proponiamo un suggestivo itinerario speleologico in uno dei patrimoni naturali più belli del Trentino.

Una suggestiva immagine delle grotte di Casteltesino: l’”inghiottitoio delle vertigini” si apre nel terzo sifone, nei pressi del “Laghetto dei Ciclopi”. (Foto Romano)




In alto, selva di stalgmiti nella grotta di Casteltesino; accanto, uno foto scattata durante la spedizione dell'Alpina all'abisso Gortani; qui sopra, il secondo lago che si incontra nel “Forno della Pagana”.


Per raggiungere l'entrata della «Grotta di Castello Tesino» partendo dal paese, si possono seguire due itinerari: il primo segue la strada per la Ròa-Ponte Séra-Lamòn-frazione Valnuvola fino alla casa «ai Confini», così chiamata perché sulla riva del torrente Senàiga: corso d'acqua che stabilisce il confine tra il Comune di Castello Tesino in provincia di Trento e il Comune di Lamòn in provincia di Belluno.
Questo tragitto può essere coperto in macchina e porta a circa 100 metri dall'entrata della Grotta. Il secondo itinerario prevede un tratto in macchina fino a località Magari e un secondo tratto – due chilometri circa – da farsi a piedi per un sentiero comodo che attraversando il bosco scende fino all'imboccatura della Grotta.
Questa ha due entrate: l'una naturale, ma non praticabile perché ostruita da grossi massi; l'altra artificiale, è chiusa da un cancello e da una porta in ferro, posta in opera per evitare atti di vandalismo e salvaguardare cosi un patrimonio naturale tra i più belli del Trentino.
Per visitare la Grotta ci si può rivolgere alla Proloco di Castello Tesino o a quella di Lamór, enti che nella stagione turistica estiva organizzano anche visite guidate. Gli ospiti sono sempre molti e viene offerto loro un itinerario tipo cosi programmato:
Arrivati all'alveo del Senàiga, attraversiamo un ponte in legno che ci porta all'entrata: una galleria artificiale d'una quindicina di metri, in capo alla quale troviamo un altro ponte, piuttosto ardito, gettato a qualche metro dal suolo della «Caverna dei Pastori». Raggiungiamo così il «Passo della Signorirà», stretta ma, tutto sommato, relativamente comoso. Una occhiata alla temperatura: costante e oscilla attorno ai 7° C. Avanzando per una decina di metri, raggiungiamo una scaletta in legno: ci permetterà di salire alla «Galleria 23 Ottobre». Il nome ricorda un brutta avventura vissuta – appunto il 23 ottobre 1927 – da uno dei primi gruppi di esploratori che arrischiarono di entrare in quello che allora era ancora chiamato il «Bus della lóra». La 'lóra' è un grosso imbuto e la conformazione dell'ambiente richiama proprio quella immagine. Capitò, in quella data, che un gruppo di cinque appassionati visitata una parte della Grotta; facessero poi per uscirne, ma trovarono l'entrata ostruita dall'acqua. Questa cresceva e i malcapitati si ritirarono quindi sempre più su fino al punto più alto della Grotta. Vissero certo momenti di sconforto e di paura. Si racconta che fecero anche testamento. Dal paese, non vedendoli tornare, partì una squadra di soccorso e l'avventura potè avere un lieto fine.
Fu per evitare si ripetessero simili guai che il Comune effettuò una serie di lavori: essi non danneggiano ne disturbano l'ambiente naturale e permettono che la Grotta sia accessibile a tutti.
Superata questa prima parte, si avanza per il ramo principale e troviamo subito un laghetto, che poi non è tale, ma per la lentezza con cui qui scorre l'acqua questa appare ferma. Da qui, per una ripida scaletta fissa, si accede al «Passaggio dei Festoni» cui segue, cinque metri in là, la «Selva delle Stalagmiti». La natura vi ha lavorato per millenni a scolpire statue di foggia diversa: meduse e mammelloni sospesi su pozze d'acqua limpidissima. E' qui la «Colonna del Ciclope» e qui ancora due taglietti che stanno quasi ad indicare un confine naturale dividendo essi la Grotta in due parti, dal punto di vista del paesaggio.
Infatti, a questo punto, la Grotta cambia completamente di aspetto: non più stalagmiti ma una specie di inferno dantesco. L'ambiente è particolarmente tormentato: spuntoni rocciosi erosi dall'acqua, massi giacenti alla rinfusa rendono il passo difficoltoso. Nello stesso tempo, un rumore assordante di torrente che si fa più intenso e cupamente minaccioso man mano che si procede. L'inferno è ingentilito da delicatissimi tocchi di questa insuperabile artista che è la natura: una colonnina tortile quasi in equilibrio su una mensola e una concrezione a mò di Madonnina raddolciscono il paesaggio e rinfrancano l'escursionista.
Abbiamo fin qui percorso circa 200 m. e abbiamo raggiunto il terzo sifone. Superiamo un passaggio alto circa un metro per infilare una bassissima strettoia che porta ad un ampio camerone. Questa è la parte finale della Grotta e là incontriamo finalmente il «Torrente ignoto»: rimbombo, schiuma e oscurità lo fanno apparire ancora più violento. Ma come per incanto, scompare in corrispondenza del terzo sifone, vicino alla strettoia che abbiamo attraversato sopra.
II suolo intanto, rimane sempre ostruito da sassi; soffitto e pavimenti erosi in profondità fanno apparire il camerone simile ad una gigantesca spugna. Non è cosi nella zona centrale: qui, una meravigliosa colonna concrezionata rosso cupo (il colore è dovuto al manganese) domina solenne l'ambiente.
Il pavimento è in salita e termina sull'ultimo tratto percorribile della Grotta: lo si può visitare solo in periodo di magra o, in altri tempi, con il battello: davanti a noi, infatti, è un laghetto limpidissimo che raggiunge in certi punti la profondità di due metri. Voler forzare questo sifone terminale, significa doversi attrezzare da esperti sommozzatori. Qualcuno lo ebbe a fare il 4 settembre 1955, dopo una sfortunata spedizione dell'anno precedente. Erano allievi del Gruppo Grotte di Milano e del sifone ne misurarono le dimensioni: lungo 24 m. è largo 7 e alto 5.
Altre spedizioni posteriori pare che aldilà di questo sifone terminale abbiano scoperto altri cameroni e ancora sifoni. Ma ciò non è ancora storia.
L'escursione è finita: è stata ricca di sorprese ed emozioni e non ha presentato alcun pericolo. I lavori soprammenzionati e un minimo di attrezzatura (lampade e caschetti sono stati forniti dalla Pro loco) hanno tolto alla visita ogni margine di pericolo.
La cronaca del viaggio non sarebbe però qui finita: abbiamo dovuto trascurare i passaggi laterali, quelli chiamati «Degli Studenti» e l'« Inghiottitoio delle Vertigini». Non abbiamo accennato ne a flora nè a fauna; nessun cenno ancora ai solchi lasciati dalle unghiate dell'orso speleo nella «Galleria 23 ottobre», dove probabilmente andava a svernare. Eppure quei passaggi, così come la flora e la fauna per certe specie son pur esse di enorme interesse.
E, per la verità l'unico e più completo modo per soddisfarlo, è venire di persona a visitare la grotta di Castello Tesino.

Paolo Borgatta e Glauco Brandolise




Perle di grotta.

TRA LEGGENDA E SPELEOLOGIA

NELL'ANTRO DEL MOSTRO

La leggenda della Bigonda, una località scoscesa sulla destra orografica del fiume Brenta, racconta di una creatura alata che viveva sotto il lago – In realtà, le acque celavano una splendida grotta, che fu scoperta solamente nell'anno 1952

DI CARLO MINATI

Viveva un tempo, nelle gelide acque del laghetto della Bigonda, un terribile mostro alato dagli occhi fosforescenti, che terrorizzava la fantasia dei bimbi di Selva. Il drago, raccontavano le nonne ai ragazzini che alla sera non volevano prender sonno, usciva dalle acque al crepuscolo, con un sordo sbattimento di ali e visitava le case dei recalcitranti, sbuffando fiamme e ruggiti.
Questa la leggenda della Bigonda, una ' località scoscesa sulla destra orografica del fiume Brenta, in fondo alla Valsugana trentina, che monta ripidamente sul versante settentrionale dell'Altipiano dei Sette Comuni. La storia, quella vera, un qualche aggancio con la leggenda, anche se un tantino forzato, ce l'ha. A quota 470 metri sul mare, proprio ai piedi di un «salto» di alcune decine di metri, stagnava un laghetto di limpide acque, che all'epoca del disgelo o dopo l'imperversare delle buriane atmosferiche eruttava fragorosamente improvvisi e tremendi torrenti, placandosi altrettanto in fretta qualche giorno dopo. Il rimbombo delle acque, scaturenti dal fondo come spinte da un'enorme pressione, raggiungeva le case del piccolo borgo trasformandosi fantasticamente nei ruggiti del drago.
All'inizio degli anni '50 a Selva, frazione del Comune di Grigno, urgeva la necessità di potenziate il rifornimento idrico e vani fino ad allora erano stati i tentativi di reperire una sorgente d'acqua potabile. Il laghetto della Bigonda – si chiesero infine gli irriducibili abitanti – poteva forse nascondere la tanto attesa soluzione del problema? Alcune prove di svuotamento fallirono inevitabilmente per l'inadeguatezza dei mezzi a disposizione, ma ormai ci si era intestarditi 11 e bene o male bisognava arrivare in fondo.
Finalmente, chieste in prestito più adatte tubazioni, si potè innescare un sifone, dopo quindici giorni di lavoro per abbassare il bordo esterno del laghetto di una decina di metri. Il motore della pompa per il sollevamento dell'acqua iniziò a brontolare la sua interminabile litania la mattina di sabato 23 febbraio 1952.
Calando, le acque scopersero dapprima la volta superiore di una nicchia che, prosciugato il laghetto, si rivelò l'imboccatura di una spelonca. «Andiamo a vedere dissero i giovani che controllavano il sifone e s'inoltrarono nella buia caverna, rischiarata appena dalla fiammella tremolante di un lume, dove mai prima di allora era stata impressa l'orma di un piede. Eppure tra le ombre che s'allungavano a disegnare irregolari figure nella grotta si cominciò a notare qualcosa di strano, di inimmaginabile: sottili aghi diafani pendevano dal soffitto qua e là; ceree, fragili candeline s'alternavano ogni qual tratto; sullo stesso pavimento scabroso dell'antro spuntavano, in corrispondenza di quei penduli e lattescenti ornamenti, altre levigate protuberanze. Quegli ardimentosi penetrarono nella caverna per alcune centinaia di metri: ecco, più avanti un laghetto, costeggiato strisciando lungo le pareti gocciolanti; sulla destra un anfratto, anzi no, è un cunicolo del quale non si vede la fine; un altro s'apre sulla sinistra… La marcia procede con prudenza, perché i piedi poggiano su pietre scivolose e coperte di fango, ma l'immaginazione sopravanza la sempre più incerta fiammella.
La grotta è abbastanza ampia, comunque occorre fare attenzione per non battere il capo contro qualche spuntone di roccia. Ora, dove la volta s'inclina con creste dentate, lo spettacolo assume contorni magia. Bianche e traslucide colonne uniscono il fondo al soffitto, dal quale scendono merlettate concrezioni striate d'arancione, frange gialline, candidi pizzi.
Come una folgorazione tornano reminiscenze scolastiche: stalattiti e stalagmiti! BastE questo per riguadagnare l'uscita e scendere per un sentiero da capre fino al paese. Poco più tardi il tratturo, punteggiato nella notte da pile elettriche, lampade a carburo e candele, viene ripercorso da decine di scarpe chiodate e stivali. Uomini e donne, giovani e vecchi si riversano nella grotta della Bigonda: inizia la prima esplorazione.
Nell'entusiasmo crescente non ci si accorge del tempo che passa; fuori il cielo s'accende lentissimamente della nuova luce del giorno; dentro è tutto un'infervorata ricerca, un susseguirsi di richiami e di stupefatte esclamazioni. E la caverna viene battezzata ramo per ramo, lago per lago. Il varco più largo sarà Piazza Selva.
La notizia rimbalzò naturalmente a Trento e l'ambiente speleologico provinciale, messo a rumore, si preparò alla prima spedizione capeggiata dal dott. Antonio Galvagni di Rovereto e composta da personale del Gruppo Grotte S.A.T. e del Museo di Storia Naturale di Trento, da alpini del Comiliter di Bolzano e dai giovani di Selva, disponibili ad ogni incarico pur di star vicini alle «loro» grotte, guidati da Eraldo Marighetti.
Giunsero anche gli inviati speciali e i fotoreporter della stampa nazionale. Selva finiva in prima pagina! Chi l'avrebbe mai detto? E si diede la stura alle fantasticherie: passa la speleologia, passa la scienza… passerà anche il turismo? Purtroppo a ventott'anni dalla scoperta non s'è ancora visto. Ma allora se ne fecero di cabale!
«L'esplosione di entusiasmo che ne seguì – racconta ora Eraldo Marighetti – ci mise addosso una tal febbre… speleologica, che esplorammo tutti gli anfratti della montagna. In effetti è come il groviera, tanto che ad ogni rovescio butta acqua da tutte le parti. Il 21 marzo del '52 però, su segnalazione di un ragazzino, scoprimmo l'antro del Calgeron, dedicato nel 1955 a G. B. Trener, ed anch'esso di notevoli dimensioni e di indubbio interesse scientifico. Poi pian piano ci facemmo le ossa seguendo gli speleologi che venivano a Selva anche dall'estero per visitare le grotte, frequentammo corsi specifici di studio, ci attrezzammo, fino a raggiungere la necessaria esperienza che ci permise di proseguire da soli nelle esplorazioni e nei rilevamenti».
Il Gruppo Grotte Selva, costituitosi dopo le prime avventurose escursioni, mantenendo costanti collegamenti col Museo di Storia Naturale di Trento e con -gli altri gruppi speleologici (in particolare trentini, ma anche extraprovinciali e addirittura di Germania, Austria e Francia), portò a compimento numerose imprese, andando a rilevare tutte le forre e le grotte delle zone limitrofe.
Per quanto riguarda il Calgeron le esplorazioni sono attualmente ferme ad uno sviluppo complessivo di 4780 metri; la Bigonda invece riserva continue sorprese. Le sofisticate e sempre più perfette attrezzature in dotazione al Gruppo Grotte Selva consentono ora di superare gli ostacoli naturali – diaclasi, pozzi e sifoni – con maggiore sicurezza di una volta, tanto che qualche settimana addietro si sono sfiorati i diecimila metri di penetrazione nella montagna, interamente rilevati (sono esattamente 9025). Ma questa è storia recente.

Carlo Minati


Qui a fianco, stalattiti tubolari (filiformi) nel “Ramo del Cigno” (Grotta della Bionda); qui sotto; risalita con scala a corda.




L'IDENTIKIT DELLA BIGONDA

La grotta è scavata nella dolomia del Trias superiore per erosione chimica e meccanica dell'acqua, penetrata attraverso diaclasi (spaccature verticali) nelle rocce sedimentarie.
L'apertura è a 470 m s/m, sulla destra orografica del fiume Brenta, in C. C. di Ospedaletto; lo sviluppo complessivo misura 9025 m. interamente rilevati; dislivello massimo 250 m.; presenta numerose concrezioni calcaree (perle di grotta, stalattiti e stalagmiti), 7 pozzi, una trentina di laghetti e oltre 100 diaclasi. Fino alle più recenti scoperte la grotta della Bigonda si distribuisce su tre piani:
1) il tratto medio va dall'entrata al primo pozzo (Grande Diaclasi), poco oltre Piazza Selva, penetra per circa 650 metri in direzione nord-sud; sulla destra si aprono il Ramo del Grillo e quello del Cigno, sulla sinistra il Ramo dei Falchi;
2) il tratto basso, denominato Galleria del Drago, inizia alla Grande Diaclasi e prosegue per altri 700 m. fino al Pozzo Marighetti (33 m); da questo, attraverso un cunicolo soprastante, si raggiungono le zone più interne della caverna, ritenute la continuazione iella diramazione principale; sulla destra .'imbocca il lungo Ramo Bellin, mentre sulla sinistra si trovano i Rami Giuliani e dei Quattro Laghi; sulla verticale del Pozzo Marighetti s'innesta il Ramo della Corsa;
3) il tratto alto consiste in una grotta Esposta più o meno parallelamente alla precedente più bassa e mantiene un dislivello approssimativo di 200 m.; oltrepassati il Ramo delle Sabbie e la Diaclasi Agostini si continua per il Ramo delle Perle che conduce ad altre diramazioni minori.
Nell'ultima spedizione (gennaio-febbraio 1980) superati i tre sifoni a catena del Ramo Bellin continuamente alimentati da un ruscelletto, si è pervenuti ad una nuova grotta, disposta in senso trasversale a questo; la parte destra è un continuo susseguirsi di anelli e di collegamenti laterali a labirinto, la sinistra si mantiene sempre sullo stesso piano inclinato verso l'alto raggiungendo un dislivello col ramo originario di circa 200 m.
Gran parte delle diramazioni finora rilevate terminano in diaclasi più o meno percorribili o in laghi a sifone o in frane.




… e quello della grotta G. B. Trener

La grotta Trener (o del Calgeron) è localizzata a sud-est della Bigonda, da cui dista circa 2500 m; contrariamente a quanto ritenuto in precedenza, le due caverne sono probabilmente separate da una sinclinale. L'entrata è a 460 m. s/m in C. C. di Grigno; misura 4780 m. di lunghezza, con un dislivello massimo di circa 320 m.; il concrezionamento è piuttosto scarso; s'incontrano una quarantina di laghetti, sei diaclasi e alcuni camini nella volta; vi sono forti depositi di sabbia nella Sala Nera, mentre altri grossi depositi di argilla caratterizzano l'inizio della grande frana nella Sala del Museo.
La grotta consiste in una galleria principale che dall'ingresso penetra in direzione nord-sud per 1130 m-, raggiungendo il sifone Daniela; poco oltre l'apertura si entra nella Sala delle Vasche (una successione a gradinata di una quindicina di vasche concrezionate piene d'acqua limpida e di stupendo effetto). Percorsi 250 m. si può deviare a sinistra in un ramo ad anello. Dopo il Labirinto, a 450 m. dall'ingresso, nei pressi della Sala Nera, si diparte, ancora sulla sinistra, il Ramo Nuovo di circa 800 m., che nel tratto terminale presenta vasti saloni (quello del Museo è lungo un centinaio di metri per 30 di larghezza ed altrettanti di altezza; sul fondo giacciono imponenti massi di frana).
In prossimità del Lago Daniela, in parete a una decina di metri dalla base, si trova l'apertura del Ramo Alto, lungo 1200 m. e percorso ininterrottamente da un ruscello.
Il lago-sifone Daniela, che blocca la galleria principale, fu tentato  dai sub del G. G. Selva, Franco Bellin e Gianni Giovanotti. I due sommozzatori raggiunsero la profondità di 35 m. e una penetrazione in diagonale di 60 m. senza toccare il fondo o poter risalire dall'altra parte.

C.M.






PRADIS DI SOTTO E' TUTTA UN BUCO

UN CARILLON TRA LE STALATTITI

di FULVIO MARION

Nei dintorni del piccolo borgo pordenonese esistono molte cavità naturali interessanti. Tra quelle aperte meritano una visita la Grotta Verde (detta anche della Madonna) e l'orrido che prese il nome dal parroco che lo scoprì


Nel gennaio di quest'anno Pradis è salita alla ribalta della cronaca con un primato loco invidiabile: la temperatura più fredda lei Friuli Venezia Giulia con ben venticinque gradi sotto lo zero. Ma a parte quelle due terribili giornate di gelo polare, le cronache non hanno più avuto occasione di parlare di Pradis, su cui è ridisceso quel silenzio e quell'oblio che l’avvolgono stranamente malgrado le sue rilevanti bellezze naturali. Comunque si tratta di un oblio relativo in quanto, se è vero che in un raggio di cinquanta chilometri non molti ne hanno sentito parlare, da anni è conosciuta in tutti gli ambienti speleologici, ed il suo nome si ritrova nelle pubblicazioni specializzate.
Per raggiungere questa suggestiva località del pordenonese, si deve percorrere la statale Udine-Pordenone e, circa a metà strada fra i due capoluoghi di provincia, si devia verso Clauzetto, un tempo caratteristica località di villeggiatura per i triestini. Dopo qualche chilometro si arriva a Pradis di Sotto, una piccola borgata di poche case la cui notorietà è legata, come dicevamo, alle grotte. Le grotte distribuite in questa zona sono per la gran parte chiuse al pubblico per evitare appropria-menti illeciti dei numerosi reperti archeologici, alcuni dei quali ora sono ospitati nel Museo delle grotte stesse, una collezione in via di restauro per i danni subiti dal terremoto del 1976. Tra le grotte chiuse al pubblico, sono da ricordare la cosiddetta Fossa di Noglar lunga ben 3.480 metri, la grotta di La Val con uno sviluppo di 1.750 metri, oppure quella dell'Orso (sviluppo di circa seicento metri) .così denominata perché vi fu rinvenuto lo scheletro di una specie d'orso scomparsa circa trentamila anni fa.
Aperte al pubblico sono invece la Grotta Verde – denominata anche Grotta della Madonna – e l'orrido di don G. Bianchini, parroco di Pradis dal 1921 al 1929, che ebbe l'intuizione della presenza di grotte e caverne nella zona, e indubbiamente fu il precursore dell'opera di certosina ricerca e di sistemazione poi ripresa concretamente nel 1962 da don Cattaruzza con l'appoggio di sette studenti dell'Istituto Salesiano di Udine. Essi costruirono nel 1966 la scalinata dell'orrido e, assieme a don Cattaruzza, idearono l'impianto luci ed un singolare «carillon». Queste notizie ci sono state riferite dal gruppo speleologico della zona, con ampiezza di particolari e di documentazioni.
Queste cavità sono state scavate nella roccia in tempi lontanissimi dal torrente Cosa e dal rio Molat. Dall'ampio pianoro riservato al posteggio delle macchine si può giungere poi -con un'agevole camminata lungo una stradina lastricata di porfido – alla Grotta Verde, chiamata appunto anche grotta della Madonna. Questa originala cavità naturale è cosi chiamata sia per la suggestiva illuminazione interna (al neon verde), sia per l'effige della Madonna posta all'interno, vicino all'altare. La grotta è anche denominata il tempio degli speleologi italiani in quanto ogni anno alla vigilia di Natale, viene celebrata la mistica Santa Messa di mezzanotte. Durante la cerimonia religiosa il momento più suggestivo è rappresentato dalla discesa di Gesù Bambino portato a spalla da uno speleologo, che scende dall'alta volta attraverso uno stretto camino.
Per chi gradisce maggiormente la luce del sole a quella dei tubi al neon, indubbiamente la discesa nell'orrido di don- Bianchini offre uno spettacolo indimenticabile. Scendendo infatti i ben 208 gradini, intervallati da pianerottoli, si ode sempre più forte e distinto l'acuto mormorio o, a seconda delle stagioni, il rombo dei torrenti che nel corso dei millenni hanno scavato una gola stretta e profonda, le cui pareti sono tappezzate da una verde cortina di vegetazione. L'erosione delle parti più friabili della roccia ha creato sul fondo delle caverne delle pareti estremamente irregolari, delle vasche levigate e decisamente profonde. Su tutto regna la luce, soffusa e pallida nelle parti più profonde, violenta come il fascio di un riflettore quando il sole penetra nell'orrido, vellutata sopra i tendaggi di vegetazione, allegra nei riflessi causati dall'acqua sulle pareti e sull'originale soffitto della caverna.
Ed ogni giorno dell'anno, ogni ora della giornata, offrono un policromo spettacolo sempre nuovo, ma suggestivo, con lo spostarsi delle luci e delle ombre. Per ammirare pienamente tale spettacolo di rara bellezza e di vera ammirazione suggeriamo il periodo che coincide con l'inizio dell'estate nella parte della giornata prossima al mezzogiorno.
Quest'anno Pradis, comunque, oltre che per le sue due giornate di clima polare con la punta negativa della regione come temperatura, sta per venir rilanciata turisticamente con diverse iniziative di valorizzazione: dall'accurato restauro del prezioso museo di reperti, danneggiato dal sisma, alle gite guidate e organizzate, a una ristrutturazione organica delle sue tante attrazioni naturali che la caratterizzano.

Fulvio Marion



 

Qui sopra. II limpidissimo lago di Redona; in alto, a sinistra, la vorticosa cascata sul fondo dalla grotta; accanto, uno scorcio della trattoria meta abituale di fine viaggio per speleologi e turisti; a destra, alcune vedute dell’orrido di don Bianchini (Foto Glauco Bidoli)




Giulio Verne

Narrativa

La fantascienza sotterranea

Che cosa rappresentano per la sensibilità della nostra mente l'oscurità e l'ignoto di una, grotta? Come l'uomo del XX secolo (che per inciso qualche anno fa è salito sulla Luna) subisce l'angoscia del sottosuolo?
Ne danno risposta, sia dal punto di vista storico, sia da .quello – forse più importante – psicologico. Fruttero & Lucentìni nella prefazione di un interessante volume (Fantascienza Sotterranea, ed. Mondadorì 1977). «Altro è l'ostacolo che i viaggiatori provenienti dalla superficie terrestre incontrano verso il basso. Qui dopo una discesa di appena 6756 km. dall'Equatore (6713 dai Poli) non c'è che da fermarsi, ogni altro passo in qualsiasi direziono ci porterebbe oggi verso l'alto. (Non sempre è stato così; i cosmografi più antichi ci rappresentavano la Terra in forma di cilindro come una specie di pozzo in cui si può scendere indefinitivamente). Questa limitazione dei viaggi “all'ingiù” è una conseguenza dolorosa e inevitabile della geometria della sfera. E' davvero una limitazione, però?
Non secondo noi. Noi siamo partiti dal presupposto che chi è interessato da queste cose sa bene che la sua aspettativa d'ignoto, la sua speranza di meraviglie e terrori è riposta nel mondo di sotto non meno e forse più che in quelli di sopra. Resta da vedere come la realtà, che in questo caso è la letteratura, corrisponda all'aspettativa.
E cominciamo da Verne, l'indiscusso fondatore della fantascienza moderna. Tra tutti i suoi romanzi “Viaggio al centro della terra” si è conservato magicamente fresco, vivo, come quando uscì più di cento anni fa (1864) e può sfidare qualsiasi fantaromanzo di oggi in quanto a mestiere, inventiva, suspence, leggibilità e rileggibilità da parte dei lettori di ogni età mentale. Questo miracolo, non c'è da dubitarne un istante, è dovuto a un maggior impegno fantastico alla maggiore “presa ” che il tema sotterraneo ha esercitato sullo stesso autore. Ma dopo Verne? Che altro esplorare? Come battere un primato di profondità geometricamente imbattibile?
La verità è che lo spazio sotterraneo non ha niente di geometrico, è anzi irrazionale (“viscerale”) per eccellenza, e la profondità in chilometri non conta. Basta un sottoscala, un seminterrato, una cantina, basta quella specie di sotterraneo a rovescio che è una soffitta, per scatenare in noi le più archetipe paure. Gli accessi al mondo di sotto non sono meno temibili e affascinanti dei suoi tenebrosi recessi. Jung interpreta come un tentato ritorno al grembo della terra (oltreché a quello materno) quello straordinario viaggio che intraprendono i bambini infilandosi sotto le coperte a testa in giù, e continuando avventurosamente, nel buio verso il fondo. Ma come spiegare l'indicibile terrore che assale gli stessi bambini, e non soltanto loro, al pensiero di ciò che può nascondersi sotto il letto?
E nel sottosuolo non ci sono soltanto le radici delle piante, le sostanze che le nutrono, le vene che alimentano le sorgenti e i pozzi. Nel sottosuolo – è venuto il momento di dircelo-francamente – ci sono i morti, c'è l'inferno, c'è il diavolo».

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