Cronaca di una discesa (18-20/08/2009)

Impressioni, emozioni, sensazioni su una discesa nell’abisso più profondo del Friuli Venezia Giulia.

Led Zeppelin:
cronaca di una discesa nell’Abisso con la “A” maiuscola

 

PREMESSA: L’ abisso Led Zeppelin è situato sull’altipiano del Pala Celar, nei pressi del monte Canin. Il suo ingresso si apre ad una quota di 2130 metri ed ha uno sviluppo planimetrico di circa 2500 metri, raggiungendo la profondità attuale di 960 metri.

PRELIMINARI: martedì 18 agosto il sottoscritto e Sebastiano incontravamo l’organizzatore del campo speleologico: Marco Sticotti detto “Cavia”. L’idea di passare 4 giorni in esplorazione era un desiderio maturato l’anno scorso, in occasione della sostituzione delle corde e dei moschettoni rimasti nella cavità per più di 10 anni e quindi non più utilizzabili. In una delle uscite mi ero spinto fino a 300 metri di profondità e avevo partecipato all’allargamento della prima strettoia.
In quella occasione mi ero reso conto delle difficoltà che la grotta presentava: meandri, non troppo agevoli e molti dei quali da affrontare in salita, e temperatura prossima allo zero. Durante l’incontro venne deciso cosa era necessario portare per il sostentamento personale e quale materiale dovevamo fornire alla spedizione: nello specifico erano necessari una decina di moschettoni con fix e piastrine e del carburo necessario per il lungo campo interno. Inoltre venne fissato il ritrovo a Sella Nevea con Cavia e gli ungheresi per il giorno sabato 22 agosto, nel primo pomeriggio, in modo tale da poter entrare in grotta entro la sera. In seguito viste le previsioni meteorologiche avverse decidemmo di dormire alla base della funivia e di entrare in grotta la domenica.
Partititi da Trieste nel primo pomeriggio di sabato, con il camper di Sebastiano, incappavamo subito in una fila chilometrica prima della uscita autostradale per Villesse. Non restava che proseguire per la statale! Il tempo, che secondo le previsioni doveva essere pessimo, ci stava letteralmente prendendo per i fondelli: caldo afoso e neanche l’ombra di una goccia.
Lungo la strada il buon Cavia ci telefonava per avvertirci che la finanza fermava tutte le macchine che arrivavano a Sella Nevea, causa una improbabile festa reggae. Dopo i consueti tornanti prima della ridente località sciistica, come da pronostico venivamo fermati e i finanzieri convinti di aver bloccato dei potenziali spacciatori o quantomeno dei consumatori di sostanze stupefacenti, ci intimavano di rivelare immediatamente cosa trasportavamo nel capiente camper, prima di sguinzagliare i cani. L’unica cosa che dichiaravamo era la nostra attrezzatura speleologica e con nostro grande disappunto ci beccavamo la mitica “multa” perché non avevamo il libretto di circolazione.
Parcheggiato il mezzo andavo alla ricerca di Marco che come da pronostico era al rifugio Brigata Julia a bere birra: non restava che aggregarsi al gruppo. Finalmente verso le 19:00, il fantomatico temporale si scatenava sulla zona e il nostro pensiero andava agli ungheresi che avevano deciso di montare il campo nei pressi dell’ingresso della grotta; per fortuna il brutto tempo durava poco.
Dopo cena ci recavamo a questa festa che in realtà era una specie di ritrovo sotto una tenda, dove delle improbabili guide ceche, “della repubblica Ceca” cioè, alquanto alticce barcollavano nei pressi del bancone del bar. Uno di questi sprovvisto di scarpe e calze ad un certo punto della serata, improvvisatosi calzolaio si costruiva delle pantofole con due pezzi di pvc ricavati da un materassino. Verso l’una e mezza io e Sebastiano andavamo a dormire visto che l’indomani bisogna svegliarsi alle 7:30, mentre Cavia e gli altri si trattenevano ancora un po’ a bagnare la gola.
La mattina dopo aver fatto colazione presso la vecchia stazione della funivia, ci preparavamo con molta calma e verso le 9:30, carichi come dei muli, ci dirigevamo presso il nuovo impianto di risalita. Fatti i biglietti non rimaneva che usufruire di queste nuove cabine per portarci rapidamente nei pressi del rifugio Gilberti, che per la cronaca risulta essere chiuso a causa dei lavori in corso per i nuovi impianti di risalita.
Giunti alla fine dell’impianto, caricati i simpaticissimi zaini ci incamminavamo lungo il sentiero che porta a Sella Prevala. In realtà del sentiero rimane ben poco, visto che a causa dei camion che vi transitano, c’è una vera e propria strada sterrata.

Con mio sommo stupore ai bordi di questa pista c’erano più di tre metri di neve, ciò che rimaneva delle abbondanti nevicate invernali. Finalmente dopo quasi un’ora di cammino arrivavamo sulla sella dove ci concedevamo una piccola pausa: la giornata era splendida e faceva caldo ma da quel punto il sentiero si manteneva in quota con qualche saliscendi fino al campo.
Il panorama lungo il tragitto era mozzafiato: una distesa di calcare modellato dall’acqua e dalla neve che nel corso di milioni di anni hanno creato queste profonde cavità che nel raggio di qualche chilometro quadrato formano una serie di sistemi tra i più profondi ed estesi d’Italia.

In lontananza vedevamo la tendina gialla degli ungheresi isolata in un mare di pietra grigia, unico punto di riferimento tra noi e l’ingresso della grotta.

Verso mezzogiorno arrivavamo all’imbocco dell’abisso, ad attenderci c’erano i due ragazzi magiari che stavano finendo di sistemare il cavo telefonico, unico collegamento con l’esterno per giorni successivi.
La programma prevedeva che un primo gruppo, costituito da Wanda, Fabieto e l’ Animale, partisse prima, trascinandosi anche il mio sacco – per l’occasione rinominato “big bag”, viste le dimensioni inusuali – e quello di Sebastiano e Marco. Infatti il primo gruppo viaggiava “scarico” dato che avevano intenzione di fare soltanto un giro di circa 4 ore per poi risalire. Nel frattempo noi con tutta calma ci apprestavamo a vestirci.
Un’ora dopo l’ingresso della prima squadra entravamo pure noi, e visto che non avevamo i nostri sacchi mi offrivo di aiutare i due ungheresi che invece né avevano due a testa. Con mia grandissima gioia mi capitò quello col trapano a motore che oltre ad essere abbastanza pensante era anche ingombrante!
Gli istanti prima della calata sono difficili da descrivere: mi rendevo conto che stavo per affrontare un’avventura veramente impegnativa, mi chiedevo se veramente sarei stato in grado fisicamente e psicologicamente di scendere e risalire da una tale profondità.
Ero consapevole che era una sfida con me stesso e con nessun altro, un’occasione che forse non si sarebbe più ripresentata e quindi da non perdere.
È interessante vedere come si comporta la nostra mente: da un lato ci spinge verso qualcosa da cui siamo attirati e dall’altra ci vorrebbe far desistere per puro istinto di sopravvivenza. Penso che siano le sensazioni che provano un po’ tutti coloro che sfidano l’ignoto, che sia una montagna o le profondità marine o, come nel mio caso, le viscere della Terra, questi sono i sentimenti che pervadono il nostro essere nella sua intima essenza.
Il rito della corda nel discensore sanciva il mio arrivederci al mondo esterno; mia unica guida nel buio la luce della lampada a carburo.
I primi pozzi seguiti dal meandro Linda furono un vero e proprio incubo, non riuscivo a trovare coordinazione nei movimenti, il sacco si incastrava da tutte le parti, gli altri mi stavano distanziando e ciò mi creava ancora più ansia. Ad un certo punto mi fermai e preso da un senso di sconforto mi dissi: “ho ti dai una regolata o è meglio che esci”, strano a dirsi la cosa funzionò e da quel momento le cose andarono decisamente meglio.
Poco prima della sala Rosina incontravamo la prima squadra che stava risalendo. Ci dissero che avevano lasciato i nostri sacchi presso la sala del Fiasco e ci fecero l’imbocca al lupo per il prosieguo. Superata la sala Rosina a -300 metri, dopo un breve smarrimento sulla strada da seguire, raggiungevamo il nostro materiale.
Gli ungheresi che ci precedevano si ripresero i loro sacchi continuando la discesa, noi ci fermavamo a fare una sosta per bere qualcosa di caldo che nella fattispecie risultò essere l’Enervit di Sebastiano visto che non avevamo nient’altro.
Marco non si sentiva molto bene: aveva freddo e dopo aver bevuto riprendevamo subito la discesa. Ci attendevano 100 metri di pozzo che risultò essere veramente molto bello sia per le dimensioni che per la morfologia. Arrivati alla base del baratro ci attende il meandro della delinquenza minorile:il nome è tutto un programma. All’imbocco una bellissima scritta fatta con il nero della carburo dai primi esploratori augura a tutti buon divertimento!
Effettivamente, dopo i primi metri abbastanza comodi, raggiungevamo un punto nel quale l’assenza di qualsiasi appoggio per i piedi e le mani, rendeva la progressione particolarmente gravosa e l’unico sistema per avanzare era quello di passarsi i sacchi di continuo. Finito l’incubo seguivano una serie di pozzi che in breve ci portarono a -500 metri. Nonostante le rassicurazioni di Cavia, la strada era ancora lunga e le previste 10 ore per raggiungere il campo base sembravano impossibili da rispettare.
Raggiunta la sala dello spit saltato, “mitica scritta da monito ai primi esploratori”, facevamo una pausa durante la quale Marco si dilettava a trasferire tutti i suoi generi alimentari da un sacco bucato ad uno integro che veniva vuotato del suo contenuto: una corda da 200 metri. La medesima veniva risistemata con qualche difficoltà, leggi calci e salti a non finire, in quello bucato.
Alle 2:00 am arrivavamo all’inizio del meandro attivo Acquacurt, a mio avviso il più bello della grotta, perché è quasi tutto percorribile camminando; di seguito, una serie di pozzi, e tra questi quello dei Cachi che nel caso di forti piogge risulta impossibile da attraversare vista la presenza di una cascata che in breve tempo aumenta considerevolmente la sua portata coprendo tutto la sezione del salto.

Superavamo così i 700 metri di profondità. Mancava solo la condotta fossile e il meandro prima della sala.
Ormai avanzavamo per forza di inerzia. Un po’ per la stanchezza, un po’ per la mancanza di sonno, gli ultimi metri furono veramente difficili. L’illusione dataci dalla galleria fossile che tutto fosse finito svanì presto quando dietro ad un’ansa abbiamo trovato un simpatico “meandrino” ad attenderci. Quei pochi metri che ci separavano dalla fine sembrarono eterni.

All’improvviso, “the Black Hole”, il buco nero che nemmeno le nostre luci riuscivano a rischiarare, si parava di fronte a noi.
Una grande sala lunga un centinaio di metri e alta una quarantina, nel mezzo una collinetta sabbiosa dove una tendina striminzita rappresenta il mitico campo base; attorno tutta una serie di cianfrusaglie speleo.
A questo punto non rimaneva che sistemare i materassini e i sacchi a pelo nella tenda per buttarsi a dormire; prima però una buona minestra liofilizzata con tanto formaggio grattugiato.
Dopo 6 ore di sonno, mi risvegliavo abbastanza riposato anche se i muscoli erano tutti indolenziti dalla fatica. Preparavo un tè caldo mentre gli altri ancora dormivano e dopo un po’ arrivò anche Sebastiano. La cosa forse più divertente è che eravamo soltanto con i sottotuta (le tute erano appese ad asciugare) e le lampadine frontali, camminavamo sulla rena come in un campeggio. Erano circa le due del pomeriggio e a questo punto, visto quanto tempo eravamo stati per scendere, decidevamo di fare un breve giro nella caverna e di ricominciare a salire, per essere fuori martedì mattina.

La sala risulta essere molto grande, con imponenti strati di sabbie compresse; il sifone di ingresso è un bellissimo laghetto di circa 5 metri di diametro che in caso di forti piogge si innalza di parecchi metri. Infatti il vecchio campo, che era stato costruito molto più in basso dell’attuale, durante una di queste piene venne spazzato via.
Poco più a monte del sifone, una frattura nella parete, dà accesso ad una galleria che dopo qualche decina di metri risultava essere parzialmente allagata, continuando chissà dove.
All’estremità ovest della caverna, dopo una breve risalita lungo una frana, un passaggio basso porta ad una galleria che si sviluppa per diversi metri. Vista però la mancanza di attrezzatura ritornavamo alla tenda per cominciare a preparare le nostre cose.
Riempivamo i nostri sacchi lasciando il materiale portato per l’ esplorazione e alcune buste di cibo che a noi non servivano. Mangiavamo qualcosa e io mi rilassavo ancora un’oretta nel confortevole sacco a pelo e poi, dopo esserci rivestiti, partivamo, salutando gli altri che stavano ancora riposando.
Erano le sei di lunedì pomeriggio, il breve ristoro ci aveva infuso nuove energie e l’idea di rivedere la luce, ci permetteva di superare velocemente i primi ostacoli. Risalivamo i primi 200 metri di dislivello in circa 3 ore e cominciavamo a pensare che forse eravamo troppo veloci rispetto la tabella di marcia, con il rischio di uscire prima dell’alba.
L’ illusione durò poco. La serie infinita di pozzi intervallati dai meandri che non ci lasciavano mai riposo, fiaccarono il nostro ottimismo.
Giungevamo alla sala del Fiasco, a -300, alle 11:20; la stanchezza si faceva sentire, tiravamo fuori il fornello per cuocere un minestra e fare un sosta ristoratrice. Nel frattempo sperimentavamo con grande piacere gli scaldini che avevamo portato con noi: infilati sotto la tuta, diffondevano una piacevole sensazione di tepore e non contenti mettevamo anche i passamontagna.
Dopo aver finito di mangiare cercavamo di dormire un po’. La faccenda risultò alquanto scomoda, io mi appoggiavo al sacco, Sebastiano contro la parete. Ad un certo punto quando ormai sentivo le mani intorpidite dal freddo, ripartivamo se non altro per riscaldarci.
Il meandro subito sopra la sala del Fiasco si dimostrò subito ostico perché, rispetto all’andata sbagliavamo la strada passando troppo bassi.
Giunti in sala Rosina verso le tre e mezza di mattina, ci attendevano tutta una serie di pozzi che con il passare delle ore ci portarono via le ultime energie, compresa quella per parlare. Un silenzio quasi meditativo, dove l’unico rumore che si sentiva era l’ acqua e la nostra attrezzatura.
Ci vedevamo soltanto alla sommità dei pozzi o quando c’era da raccogliere l’acqua per bere.
Gli ultimi 200 metri sembravano non finire mai. Raggiunsi uno stato mentale per cui non pensavo più all’uscita ma soltanto ad affrontare il pozzo o il meandro successivo. Ad un certo punto, guardando verso l’alto, mi sembrò di veder filtrare la luce esterna.
Pensai ad una allucinazione!
Per fortuna erano veramente gli ultimi metri, l’ultimo pozzo, l’alba sul Pala Celar.
Il sole saliva dietro le creste e ad ogni istante uno spicchio d’erba bagnato dalla rugiada veniva riscaldato da questi amati raggi. Non poteva essere cosa più gradita distendere i nostri stanchi corpi su questo giaciglio.
Dormivamo beatamente per circa due ore, poi, raccolte le nostre cose scendevamo lungo il pendio erboso fino a raggiungere l’immenso campo solcato del Pala Celar. Camminavamo lungo creste di roccia separate da baratri innevati, salivamo lungo piccoli dossi di calcare fino alla tanto agognata mulattiera del Poviz. Qui tanti anni prima, il sudore degli alpini aveva costruito questo sentiero che sale da Sella Nevea per andare a combattere contro il nemico.
La discesa con gli zaini pesanti non era molto piacevole ma il pensiero di arrivare al camper era un ottima motivazione per continuare. Giunti alla macchina potevamo rilassarci beatamente, togliendo finalmente le pedule.
L’avventura era conclusa, la stanchezza si faceva sentire ma la felicità per l’impresa sopperiva a tutto: già si pensava alla prossima volta.
Non rimaneva che tornare a casa, non prima di aver mangiato l’immancabile pollo a Resia.

Edo

Nessun commento presente.

Nessun trackback