Inquinamento delle grotte 1 – 08 gennaio 2010

Lo scandalo delle grotte del carso triestino usate come discariche.IL RISULTATO DI UNO SCEMPIO AMBIENTALE INIZIATO NEGLI ANNI ’60

II Carso usato come grande discarica


II rapporto choc degli speleologi: decine di grotte gravemente inquinate

TRIESTE Decine e decine di grotte del Carso triestino pesantemente inquinate, ostruite con i materiali più vari, usate come discariche e persino distrutte. Delle 2.695 cavità registrate nel Catasto delle grotte, gestito dalla Regione, 121 risultano inquinate, 247 non sono più accessibili in quanto ostruite, mentre di 19 non c’è più traccia (sono state distrutte da interventi vari, come cave di pietra o lavori stradali).


• Palladini a pagina 13

Lago di idrocarburi in una grotta (f. Liverani)


AMBIENTE: UN’INDAGINE SPELEOLOGICA


Veleni sul Carso, grotte come discariche


Contaminate 121 cavità, 247 ostruite. Trovati idrocarburi rimossi dalla Siot dopo l’attentato del ‘72

di GIUSEPPE PALLADINI

Decine e decine di grotte del Carso triestino pesantemente inquinate, ostruite con i materiali più vari, usate come discariche e persino distrutte. Delle 2695 cavità registrate nel Catasto delle grotte, gestito dalla Regione, 121 risultano inquinate, 247 non sono più accessibili in quanto ostruite, mentre di 19 non c’è più traccia (sono state distrutte da interventi vari, come cave di pietra o lavori stradali).
È quanto emerge da un’indagine sul campo effettuata da Roberto Trevi e Claudio De Filippo, speleologi del Cai XXX Ottobre, e dall’associazione ambientalista Greenaction Transantional.
Gli esempi più drammatici di come dagli anni Sessanta in poi si sia ricorsi alle cavità carsiche per smaltire ogni genere di rifiuto sono situati nel territorio del Comune di Trieste. A cominciare dal Pozzo dei Colombi, nei pressi di Basovizza, il cui fondo è trasformato in un lago di idrocarburi e nafta. In quella che era una splendida caverna, nel 1972 vennero anche gettati i terreni impregnati di petrolio, rimossi dall’area Siot dopo l’attentato di Settembre Nero. In quel lago ci sono però anche fanghi industriati, residui del lavaggio di caldaie e sostanze chimiche non meglio precisate.
«Nel 1972 centinaia di camion – racconta Furio Premiani, presidente della Federazione speleologica triestina -scaricarono i residui dell’incendio alla Siot. La grotta è profonda 75 metri: fu riempita fino a 15 metri dall’apertura. Un mare nero che con il caldo estivo si allenta e scende in profondità. Nel 1996 – aggiunge – la Regione incaricò una ditta di bonificare la grotta. Si arrivò fino ai 30 metri di profondità, poi ci si fermò».
Non migliore è la situazione del Pozzo del Cristo, sulla strada che da Basovizza porta a Gropada, dove negli anni ’60-’70 fu installato persino un bocchettone per facilitare il collegamento alle autobotti impegnate a scaricare nafta e altri residui, scarichi che avvenivano con tanto di autorizzazione del Comune di Trieste,
«Avevamo smesso di andarci – racconta Claudio De Filippo, del Gruppo grotte del Cai XXX Ottobre – quando era pieno. Adesso si è svuotato. Dove è finita tutta quella roba non si sa. Le pareti sono coperte da uno strato nero di nafta. Dal fondo, che sta 60 metri di profondità, in certi momenti risalgono esalazioni che possono essere mortali. Bisogna usare il respiratore».
Un lago di nafta, copertoni e altri detriti ricoprono il fondo della cosiddetta “Grotta inquinata”, a un centinaio di metri dall’abisso di Trebiciano. «A circa 50 metri dalla strada – spiega Premiani – c’è un’apertura in cui per anni si è scaricato di tutto: residui della pulizia di caldaie, serbatoi, detriti di ogni tipo. E vicino c’è una dolina, usata anch’essa per anni come discarica, fino al suo riempimento».
Gli esempi di questo stravolgimento dell’ambiente sotterraneo (e non solo) del Carso purtroppo si sprecano. «Nell’abisso di Rupingrande scaricano le fogne della case – racconta ancora Premiani – come avviene anche a Basovizza: all’ingresso del Sincrotrone c’è un impianto di depurazione, da dove alcuni tubi portano le acque reflue in due grotte vicino a una pineta».
Quello delle grotte ostruite, fino al punto di non poter più riconoscere l’ingresso, è un altro esempio di questo scempio continuato per decenni (e probabilmente ancora in corso). Quasi 250 grotte, sparse su tutto il Carso, esplorate e inserite nel Catasto regionale, di cui non c’è più traccia. «Sono scomparse – spiega Claudio De Filippo -. Ci hanno buttato dentro di tutto, anche detriti di costruzioni, fino a farle scomparire. E poi c’è un numero imprecisato di grotte scoperte durante interventi privati e subito richiuse, di cui non si saprà mai neanche l’esistenza».
Un patrimonio gravemente compromesso, dunque, la cui situazione è nota agli addetti ai lavori ma che balza ora tristemente alla ribalta nazionale dalle pagine della rivista National Geographic. Uno stato di cose che non facilita certo le ambizioni turistiche dell’altipiano e dell’intera provincia.
Nell’elenco dei materiali pericolosi e inquinanti scaricati nelle cavità del Carso non manca neppure l’amianto. «Dalla Grotta degli occhiali – ricorda Premiani – nel 2005 ne abbiamo estratto, con tutti i problemi e le precauzioni per recuperarlo, almeno un metro cubo. Sul Carso l’amianto è sparso un po’ dappertutto, negli anni è stato buttato anche nelle grotte. Per non parlare dei vasi di vernici, di contenitori di solventi trovati in diverse cavità, e dei 700 chili di batterie degli anni Trenta, contenenti ancora pericolosi elettroliti, recuperate da una grotta vicino a Ternovizza, in comune ai Duino Aurisina».
Ma c’è la possibilità di intervenire per limitare i gravi danni recati negli ultimi decenni al sistema delle grotte? «Dove si tratta di detriti – osserva De Filippo – è abbastanza facile ripulire, ma nel Pozzo del Cristo, inquinato da idrocarburi, è necessario l’intervento di una ditta privata, con i costi elevati che ciò comporta. Anni fa il Pozzo dei colombi è stato svuotato da un’impresa finché sono bastati i fondi, poi tutto si è fermato».
«È un problema molto grosso – gli fa eco Premiani – è un vero bubbone. Ci sono stati interventi sporadici, fra cui quelli del Comune di Duino Aurisina, durati quattro anni e poi interrotti penso per mancanza di fondi. Per la pulizia dell’abisso Plutone il Comune di Trieste ci ha dato un po’ di fondi. Non c’è mai stato però – prosegue – alcun incarico ai gruppi speleologici da parte delle istituzioni, per fare un lavoro organico sulla valutazione della consistenza degli inquinanti. Perché non lo si è fatto? Mancano soldi o forse è meglio tenere tutto nascosto?».
Una norma sulla tutela degli ambienti ipogei sul Carso esiste, ma non è stato redatto ancora il regolamento attuativo. Si tratta del decreto del presidente della Regione 20/3/2009, emanato nel quadro della direttiva europea Habitat, che protegge ambienti e animali del mondo sotterraneo. «Vorrei mi spiegassero – commenta con toni amari Premiani – come intendono applicare le direttive, o se fanno i decreti solo perché lo impone l’Unione europea».


Un lago di idrocarburi pieno di pneumatici all’interno di una grotta vicino a Trebiciano; nel Pozzo Mattioli c’è chi ha addirittura gettato una Vespa (Foto Fabio Liverani)



Cucchi: Timavo a rischio inquinamento
II docente di geografìa fisica: «Difficile intervenire, molte cavità sono private»

Non si sa però qual è la velocità di assorbimento

Le prime segnalazioni  ufficiali sull’inquinamento  nelle grotte del Carso risalgono al 1981, in occasione del quinto Congresso di speleologia svoltosi a Trieste. Dati che furono puntualmente registrati nel Catasto regionale delle cavità. A ricordarlo è Franco Cucchi, docente di Geografia fisica al Dipartimento di geoscienze della nostra Università, esperto del mondo ipogeo e già curatore del Catasto delle grotte.
E proprio al Catasto, ricorda Cucchi, nel 2004 il Servizio ambiente del Comune di Trieste si rivolse per conoscere il numero delle cavità inquinate nel territorio comunale. «Fornimmo un elenco con 60 grotte – ricorda il docente – nelle quali erano presenti materiali di vario tipo. A quel punto il Comune di chiese come si poteva intervenire, ma si fermò quando vennero prospettate le difficoltà operative per attuare interventi di pulizia e risanamento.
Difficoltà che essenzialmente sono di due tipi. Innanzitutto economiche, posto che il lavoro di una squadra di speleologi costa alcune centinaia di euro al giorno. Altre spese vanno poi per il trasporto e lo smaltimento dei materiali recuperati.
«Il vero problema, che ha fatto arenare l’iniziativa – osserva Cucchi – è che molte di quelle grotte sono private, e quindi per intervenire è necessario il permesso del proprietario, cosa difficile da ottenere. In base alla legge, infatti, proprietario della grotta è il padrone del terreno sui cui si trova l’ingresso della cavità».
Ma, sul piano geologico e chimico, quali rischi ci sono che gli inquinanti presenti nelle grotte finiscano nei corsi d’acqua sotterranei e poi in mare? «Pian piano il dilavamento degli inquinanti finisce nel Timavo – spiega Cucchi – ma non si sa con quale velocità di assorbimento. Non è detto poi che i dilavamenti finiscano nei corsi sotterranei principali. L’Acegas-Aps da sempre effettua le analisi delle acque alle foci del Timavo; finora non ci sono state segnalazioni di aumenti, degli inquinanti o di contaminazioni significative. Va detto comunque – conclude – che sul piano scientifico non è mai stato organizzato nulla per capire I’entità delle, contaminazioni, attraverso sondaggi o prelievi mirati».
Le competenze di queste analisi a chi spettano? «In teoria – risponde Cucchi – dovrebbero ricadere sull’Arpa, l’Agenzia regionale per l’ambiente.
Il fatto è che il fenomeno inquinante diventa importante solo quando interessa acque utilizzate in qualche modo dall’uomo. Prima, in sostanza, non viene preso in considerazione».
Per dare una volta allo stato delle cose, puntando a un’opera sistematica di risanamento delle grotte inquinate, cosa sarebbe necessario? «Si potrebbe provare – propone Cucchi – a creare un. sistema informativo più accurato di quello esistente. Ma poi le istituzioni dovrebbero rimboccarsi le maniche e trovare i cospicui  finanziamenti necessari», (gi. pa.)

Uno speleologo osserva un’automobile Zastava scaricata nella parte superiore di una grotta

Le grotte inquinate
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Godina: il monitoraggio spetta alla Regione
Predonzan (Wwf): «Non si capisce mai chi deve rimediare»


Scorie di idrocarburi nel Pozzo del Cristo

«II monitoraggio spetta alla Regione, attraverso il Catasto delle grotte, ma ciò non toglie che, in base alla nostre competenze in tema di inquinamento, potremmo intervenire sulla base di specifiche richieste o denunce. Richieste che però finora non sono mai arrivate». Il vicepresidente della Provincia, Walter Godina, con delega alle politiche per il Carso, chiarisce che palazzo Galatti non è mai stato interessato per intervenire in casi di inquinamento nelle grotte del Carso, ma avverte anche che la custodia delle grotte spetta ai proprietari dei terreni (spesso privati), e ad essi farebbero capo anche gli elevati costi per eventuali bonifiche delle cavità inquinate.
Sul fronte ambientalista, Dario Predonzan, esponente del Wwf, ricorda le numerose denunce fatte negli anni, che non hanno però avuto seguito, al pari dei dossier predisposti dai gruppi speleologici. «Non si sa chi dovrebbe ripulire le grotte -osserva – perché la normativa non lo dice. Il patrimonio speleologico del Carso è di rilevanza mondiale. Questo nuovo interesse per l’inquinamento delle grotte sarebbe l’occasione buona perché la Regione facesse una legge che stabilisca competenze, modalità e fondi per intervenire».
Il problema è che è impossibile risalire alle responsabilità e che i proprietari dei terreni cercheranno di non dover intervenire. In sostanza, una vera tutela delle grotte non esiste. «La Regione aveva fatto qualcosa – ricorda Predonzan – con gli elenchi relativi alla legge sui beni paesaggistici. Il vincolo che blocca le costruzioni riguarda i terreni sopra le grotte più importanti, ma sì tratta comunque di una tutela debole e limitata in quanto relativa solo all’aspetto estetico dei terreni».
Come uscirne? Roberto Giurastante, rappresentante di Greenaction International, ricorda che il problema dell’inquinamento nelle grotte non è mai stato affrontato, mai l’area è stata inserita in un territorio dichiarato inquinato. «L’intervento legislativo – osserva – per il riconoscimento della gravità dell’inquinamento del Carso spetta al ministero dell’Ambiente, ma riguarda la superficie. Quanto al sottosuolo c’è invece il limbo legislativo, anche perché si tratta di proprietà private. La Regione potrebbe intervenire, ma non si è mai attivata, per destinare risorse alla bonifica delle grotte del Carso».

Da “Il Piccolo” – 8 gennaio 2010

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