Esplorazioni del 2007 – Gabomba, un anno dopo

La descrizione dell’uscita alla Grotta Gabomba del 10 agosto 2007. Le impressioni, i pensieri, le emozioni che ancora, a un anno di distanza, questa grotta sa suscitare.

10.08.2007. Gabomba, un anno dopo.

Cammino, un passo dietro l’altro. Gli stivali si bagnano sull’erba ancora umida delle gocce di pioggia che hanno appena smesso di cadere.
Cammino, un passo dietro l’altro, lungo la traccia erbosa di sentiero che avevo visto per la prima volta solo un anno fa.
E da quella volta, dopo quelle cinquanta ore di splendido buio, non mi ero mai più ritrovato da queste parti.
Lentamente riaffiorano i ricordi, il posto ridiventa familiare, coincide nuovamente con l’immagine che ne avevo conservata nella mente.
Ecco, qui c’è l’incrocio, il bivio: se proseguissi dritto arriverei al “bivacco”, alla baracca in lamiera attrezzata come deposito viveri e materiali, e che permette di dormire all’asciutto durante le uscite plurigiornaliere. Io invece svolto a sinistra e m inoltro nel sottobosco incolto, attraverso quello che resta di una vecchia traccia di boscaioli.
Ancora qualche metro; un albero morto messo di traverso sul sentierino è l’ultimo ostacolo da superare.
Alla fine eccolo, l’ingresso della Grotta Gabomba. Subito sotto quei tre gradini in pietra che aiutano a superare il dislivello tra il sentiero e la microscopica dolina che ne ospita lo sbocco all’esterno.
L’entrata è là, con il suo muschio sulle rocce tutt’attorno; con la sua targhetta in plexiglass con su inciso il nome della grotta, che ricorda come sia ancora in fase di esplorazione. C’è tutto, è esattamente tutto come l’anno scorso.
Solo una cosa è cambiata: non ci sono i 5 sacchi da trasportare, i cinque “piombi” da trascinare, da spingere, da passare di mano in mano lungo i meandri, i pozzi, le strettoie. No, questa volta l’uscita è comoda, non è una punta esplorativa, da trapano e accumulatori, non è un’uscita lunga, no!
Lo scopo della nostra visita è documentare, con immagini fotografiche, la morfologia della grotta, forse bisognerebbe dire le morfologie, in particolare delle parti più profonde, quelle più lontane dall’ingresso; le gallerie, quelle senili e quelle attive, quelle completamente riempite di argilla e fango e quelle erose e lucide d’acqua.
E anche la squadra è diversa, stavolta siamo in sei. Oltre a me ci sono Max e Clarissa, gli sponsor degli scatti, Omar e Umberto, gradito ospite del Forum Julii, con compiti di supporto per i lampeggiatori o come soggetti delle istantanee.
L’attrezzatura personale è perciò ridotta al minimo, ai soli strumenti per la discesa e la risalita speleo, un po’ di cibo e carburo: nient’altro.
Ma è proprio tutta questa comodità, questo striminzito sacchetto personale che mi porto dietro che mi fa riflettere, mi fa pensare, mi fa capire quanto è stata dura, un anno fa.
Entriamo. Cammino nella prima parte della Gabomba, la parte vecchia, la parte allargata a forza di martello e scalpello da Furio (GA)gliardi e Marino (BOMBA)rdier.
Procedo veloce, a tratti con il sacco in mano, a tratti addirittura con il sacco in spalla. Ma quante curve, quanti passaggi stretti; ma quanto andavamo più lenti in tre, con i 5 sacchi carichi di cibo, amache, sacchi a pelo. Ma quanti passamano per superare questo primo centinaio di metri e arrivare nella prima saletta, quella delle “clanfe”. E che teleferica ci siamo inventati per quel tubo inclinato di 10, 15 metri che sbocca nella grande sala, quella dove è stata individuata la prima, e più vecchia, prosecuzione, quella che ha cambiato la grotta, l’ha fatta raggiungere e superare il chilometro di sviluppo. La stessa sala nella quale, più recentemente, è stata individuata anche la nuova prosecuzione, quella ancora in fase di esplorazione.
Ripenso all’avventura dello scorso anno e alla fatica che non concedeva tregua, nemmeno in discesa, nemmeno nelle prime ore. Ora è tutto cambiato, ora pur essendo l’incedere molto più veloce, molto più spedito, c’è il tempo per guardarsi attorno, per osservare, per ammirare.
Ammirare il lavoro dell’acqua, immaginare l’acqua al lavoro, per secoli, millenni. E scavare, allargare, modellare, plasmare questi meandriformi passaggi.
E riflettere ancora una volta che senza la caparbia dei nostri due soci tutto questo lavoro di cesello non avrebbe forse mai avuto nessuno spettatore; sarebbero rimasti solo silenziosi e oscuri passaggi. Invisibili e sconosciuti, muti testimoni di un lavoro incessante, un lavoro continuo, interminabile, che anche adesso, mentre cammino fra questi passaggi e senza che me ne renda conto, sta proseguendo, sta trasformando gli ambienti.
Siamo ancora tutti nella sala dalla quale parte il meandro che ha condotto alle parti basse, alle gallerie, ma veloci ci infiliamo nel suo zigzagante percorso.
In molti dei suoi tratti sembra finto per quanto le sue forme sono perfette, quasi didattiche, da manuale di idrogeologia ipogea.
Il tetto, che segue l’inclinazione sub-orizzontale dello strato lungo il quale si è formato; e a scendere le sinuose curve del suo approfondimento verticale, un susseguirsi di condotte circolari intercalate da diaframmi molto più stretti, a disegnare quasi la mappa di una serratura.
E un metro, due o più, in basso, illuminato a malapena dalla carburo, il riflesso dell’acqua, del livello di scorrimento attuale dell’acqua.
A volte, tanto è stretto e alto il taglio nel calcare, posso solo sentire il rumore del filo d’acqua. E posso solo immaginare il frastuono di quello stesso corso d’acqua in altre epoche, in altre ere, quando magari tutti quegli spazi, quelle zone che oggi chiamiamo vadose, erano freatiche, piene d’acqua.
Inizia la sequenza di pozzi. Per una decina di metri si procede in orizzontale, poi spunta una corda che ci invita a utilizzare il discensore.
Pochi metri di discesa e nuovamente in orizzontale; continua così due, tre, quattro, cinque volte, ma in questa uscita, posso guardarmi meglio attorno: altro che pozzi, questo non è altro che il meandro! Si è talmente approfondito e allargato che è necessario l’ausilio delle corde.
Che lavoro di erosione, che lavoro di dissoluzione. Quanta acqua deve essere passata in questi luoghi.
Arriviamo e sorpassiamo “le faccine”, quella simpatica coppia di diaframmi rocciosi che, messi uno di fronte all’altro, assomigliano a due profili umani. Passo di nuovo per quel microscopico vano che giusto un anno prima avevamo utilizzato per rifocillarci, sia in discesa che in salita.
La grotta non è più una assoluta novità, com’era invece la volta scorsa, perciò mi aspetto da un momento all’altro il primo vero grande pozzo, il Venti. Ed eccolo, preceduto da quella indimenticabile curva a gomito di 90°. Così perfetta, così netta, così improvvisa che non può non venir da chiederti ma perché l’acqua non ha proseguito dritta? Com’è possibile che fino a qui il meandro abbia dimensioni più che metriche e improvvisamente cambi? Com’è possibile che tutto d’un tratto si restringa a pochi centimetri, e l’acqua, invece di continuare in linea retta, abbia trovato una via d’uscita così nettamente diversa?
Ovviamente la risposta è tutta nella litologia delle rocce, ma ciò non toglie nulla alla magia del luogo.
Superato il 20, a dividerci dalle gallerie c’è solo l’altro grande salto, il P32.
Un frazionamento, un secondo, un terzo e avanti, fino ad atterrare sul fondo. Non credevo fosse così, vista la pioggia dei giorni scorsi, ma nel laghetto c’è meno acqua della volta precedente.
E infatti anche il sifone è completamente all’asciutto: quasi quasi non c’è nemmeno stillicidio.
Un ultimo ostacolo oramai mi separa dalle gallerie. Quel tubo inclinato, quei due metri e mezzo di tubo che va su a circa 40°, allargati a fatica, con mazza e punta.
Mi infilo di testa, con il sacco davanti. E comincio a spingere con i piedi, con le mani, con i gomiti.
Mi aspetto di sudare le fatidiche 7 camicie, mi ricordo che questo ultimo passamano, la volta scorsa, ci ha distrutti. E invece, due spinte, due tirate e via, fuori. Non c’è quasi gusto.
Ancora pochi metri di discesa e ci siamo: le gallerie.
Eccole, finalmente. Se continuo verso il basso vado sul fondo. Dritto, invece, vado verso quello che è stato il nostro campo base.
Tutto è ancora là. La condotta inclinata, la sabbia finissima sul pavimento; i passaggi, i capisaldi del nostro rilievo. Tutto come me lo ricordavo, sembra sia stato qui la scorsa settimana!
Superiamo l’ex bivacco speleo e saliamo, saliamo per lo strato inclinato eroso; ci lasciamo alle spalle concrezioni, massi di crollo, resti di colate calcitiche alte più di un metro che sembrano strati di una cipolla sbucciata, strappati dalla loro originale posizione da chissà quali tumultuosi regimi idrici o movimenti tettonici.
Oltrepassiamo il pozzo che non eravamo riusciti a scendere e che solo dopo avevamo saputo far parte di quel giro turistico che ti fa percorrere un anello che bypassa, su un vecchio livello freatico inferiore, la strada che abbiamo appena percorso.
Saliamo ancora, il soffitto si abbassa leggermente e lo spazio si fa più ingombro di massi enormi, ammucchiati, accatastati, incastrati gli uni sugli altri.
Ci avviciniamo al “punto 0”, il punto dal quale avevamo iniziato il rilievo, perché non sapevamo che l’arrivo d’acqua contro il quale ci eravamo fermati era effettivamente il passaggio, la porta per i piani superiori. Il passaggio per quella galleria alta che da un lato sembra debba ricondurci all’attacco del P32 e dall’altra sfocia quasi sul fondo del P70, il pozzo che risalito in artificiale, ha rivelato la galleria per il momento bloccata da una frana a pochi metri dal possibile secondo ingresso.
Adesso lo sappiamo che la via è quella, che da dove eravamo partiti con il rilievo è necessario, in arrampicata e con l’aiuto di uno spezzone di corda, alzarsi ancora di pochi metri.
Ed eccomi così finalmente in una zona per me nuova, in un territorio sconosciuto, in un’altra galleria sub-orizzontale, morfologicamente impostata sulla stessa frattura che ha originato le altre, quelle più basse, quelle ragionevolmente più giovani, nate dall’approfondimento delle condotte più alte.
Dopo una breve sosta per mettere in bocca qualcosa e fare carburo, i maestri della foto decidono di iniziare gli scatti dalla parte di galleria che punta verso il P32, verso l’ingresso.
Un paio di passaggi tra i massi ed eccoci nella sala nella quale le precedenti esplorazioni si sono fermate.
Una possibile prosecuzione in alto, un’altra un po’ più a sinistra e per terra una… spiaggia! Sembra di essere in riva al mare. Sassi, ciotoli levigati, rotondi, ancora una volta spettatori passivi di epoche passate, di altri scorrimenti idrici.
Partono i flash: tre, quattro, cinque foto, poi si ritorna dove avevamo lasciato i sacchi.
Ma prima di scendere, dato che nemmeno Omar e Umberto avevano mai visto questa parte di Gabomba, ci dirigiamo verso il P70.
È necessario affrontare un breve tratto di galleria con alcuni passaggi bassi e un po’ esposti su piccoli pozzetti, ma poi il pavimento si fa nuovamente dritto, nuovamente leggermente meandriforme. Improvvisa una svolta a destra, tra due pareti alte e quasi tagliate con il coltello. Infine il soffitto velocemente sparisce nel buio.
Le pareti si allontanano e ci affacciamo su una specie di pianerottolo, un pianerottolo però senza alcuna balaustra.
La roccia delle pareti si allontana velocemente davanti a me e non riesco a seguirla che per un breve tratto. Verso il basso solo nero. Verso l’alto solo nero.
Siamo su una finestra, a circa 20 metri dal fondo del pozzo e a una cinquantina dall’alto.
E guardando verso l’alto non posso che immaginare la risalita artificiale che è stato necessario affrontare per raggiungere la testa del pozzo; non posso che pensare alle sensazioni, alle emozioni, di chi per primo ha violato questo calcare.
Salire verso il buio, lasciando sotto a noi il buio, senza sapere cosa ci aspetta solo qualche metro più in alto.
Anche questa è speleologia: una sfida all’ignoto.
E che vittoria arrivare sulla testa del pozzo e scoprire che prosegue, che continua, che là c’è una galleria. Ad aspettarti, a condurti chissà dove.
Questa volta, però, non c’è tempo per fare le foto di questa zona della grotta, perciò ritorniamo verso l’ex campo base, non trascurando di fermare nelle memorie digitali della fotocamera alcuni scorci degli ambienti che attraversiamo.
Per scendere nella parte bassa della grotta decidiamo di passare per la “Topovia”, quella condotta che dall’ex bivacco speleo ci porta direttamente alle gallerie inferiori.
È un passaggio che non avevamo affrontato un anno prima anzi, per dirla tutta, non sapevamo nemmeno che quel buco nel terreno, stretto da passarci a malapena, pieno di terriccio asciutto, conducesse da qualche parte.
Solo dopo, solo parlando con gli altri, avevamo capito che quella risalita che solo io avevo affrontato, una risalita su un vecchi meandro completamente levigato, con una quasi perfetta sequenza di vasche rigorosamente circolari e passaggi più stretti, era parte di questo bypass e riconduceva proprio alla nostra sala da pranzo ipogea.
La Topovia è incredibile. Per un buon tratto, soprattutto quello che punta verso la parte più alta della grotta, è un tubo. Una condotta stretta e lunga, quasi rettilinea, da percorrere carponi.
Se invece la si imbocca verso il basso, quasi subito si allarga e lascia spazio a quell’ex meandro “a vasche”, una di seguito all’altra, una un po’ più bassa della precedente, che in solitaria avevo affrontato solo un anno prima.
E dopo l’ennesima vasca, un angolo retto a sinistra permette alla luce di illuminare il suo tratto finale, una serie di lisci salti che per una ventina di metri, a 45°, scendono fino al livello delle gallerie terminali.
Ci avviciniamo al termine della nostra uscita; ci fermiamo ancora solo per alcuni scatti nelle gallerie, dove i flash faticano a illuminare la vastità degli ambienti.
Affrontiamo ancora una volta quel passaggio basso che ci riporta sotto la galleria principale e riutilizziamo la corda dinamica, da arrampicata, per superare quella ventina di metri di dislivello di liscio piano inclinato.
Ancora un paio di foto per fissare in un’immagine questa risalita, la sua sabbia finissima, le sue levigatissime pareti, poi la macchina fotografica finisce nuovamente nel sacco. I lampeggiatori vengono chiusi nei contenitori imbottiti che li devono proteggere dagli urti.
Tutto è pronto, l’attrezzatura per la risalita è a portata di mano, non dobbiamo che rimetterci sulla via dell’uscita.
Sono l’ultimo ad affrontare il tubo inclinato, questa volta in discesa, e dietro di me la luce, lentamente, si spegne; il buio si riappropria delle gallerie, dei pozzi; scende sulle stalattiti, sulla sabbia, sui corsi d’acqua.
Tutto è nuovamente immerso nel silenzio, nella solitudine.
Almeno fino alla prossima!

Paolo

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