Esplorazioni del 2006 – 50 ore di Gabomba

Il racconto di due giorni passati in questa cavità per realizzare parte del suo rilievo

Gabomba: due giorni di splendido buio.

Sono in piedi davanti a quello che per il momento è ancora l’unico ingresso della Grotta Gabomba. Gianni è già dentro a togliere i lucchetti della porta metallica che vuole scoraggiare incauti e inesperti visitatori occasionali a proseguire nel buio.
Furio sistema ancora una volta l’imbraco che, come sempre, dall’ultima uscita si è ristretto!
A terra i 5 sacchi, stracolmi, che ci seguiranno in questa avventura lasciano presagire solo sudore e fatica.
Fa strano.
Dopo anni che sento parlare di Podbarie, dopo decine di racconti sulle ultime entusiasmanti scoperte di quella che oramai è stata ribattezzata Grotta gabomba, per ringraziare soprattutto i due amici che per anni, senza grossi mezzi, ma solo tanta tenacia e pazienza, hanno lavorato sul primo tratto di cunicolo, quello che una volta raggiunta la prima sala, ha permesso di individuare la via da seguire, la strettoia da imboccare per arrivare al chilometro attuale di sviluppo, anch’io avrò la possibilità di vedere, di toccare con mano i meandri, i pozzi, la sabbia, i sifoni, le gallerie fossili che tante volte mi sono trovato a dover solo immaginare.
In molte occasioni avevo cercato di organizzare un’uscita “turistica”, con famiglia al seguito, per non dover sempre combattere con la fretta di uscire, ma questa volta è diverso.
Sono le tre del pomeriggio di venerdì 11 agosto (2006), abbiamo lasciato Trieste sotto un freddo diluvio alle otto, ma soprattutto il nostro riemergere è previsto per la serata di domenica.
Due giorni e due notti tutte al buio. Tutte in Gabomba, per rilevare quelle gallerie della parte bassa, profonda, della grotta, che già piuttosto approfonditamente esplorate, non hanno lasciato individuare grosse vie di prosecuzione, contraddistinte come sono, o da enormi depositi di fango asciutto, o da arrivi d’acqua che si aprono la strada tra condotte di dimensioni decimetriche, impenetrabili anche per i nostri più smilzi uomini (e donne) di punta.
Inizia la discesa e subito la tecnica del passamano diventa a noi familiare. Percorrendo il primo centinaio di metri di cunicolo, la parte vecchia della grotta, quella che ancora si chiamava Podbarie, quella tutta allargata artificialmente, quella che mille volte mi è stata descritta come “un’autostrada”, se confrontata con le dimensioni precedenti i lavori, comincio a vedere la morfologia di questa grotta, il suo svilupparsi lungo quello che era un percorso completamente allagato e che è stato via via abbandonato dall’acqua.
Ma mi immagino anche la volontà (di Marino B. e Furio G.) nel continuare quest’opera di adattamento alle umane dimensioni che ci consente, tra brevi tratti in posizione eretta, altri in ginocchio e qualcuno sdraiato, di arrivare a quel primo grande ambiente che, oramai alcuni anni fa, aveva acceso gli entusiasmi di tutti gli speleo-esploratori del San Giusto.
Questa sala, che ad un primo esame aveva rivelato solo delle brevi prosecuzioni che non avevano condotto a grossi sviluppi planimetrici, è invece ora la partenza della nuova, sterminata, entusiasmante Gabomba.
E’ già passata un’ora dalla nostra immersione nei calcari, e finalmente un ambiente ampio.
Chissà l’emozione di Marino quando per la prima volta l’ha raggiunta; chissà cosa ha provato quando, cercando tra i massi, tra le luci e le ombre della carburo, ha visto quei modesti indizi di possibili prosecuzioni.
Ma chissà cosa ha sentito quando la nuova direzione da seguire è stata individuata ed allargata. Quando percorrendo un meandro che più meandro non si può, con il suo approfondirsi anche di qualche decina di metri, si passa in mezzo a vecchi livelli freatici, sotto eversioni che solo importanti regimi idrici potevano aver generato, si procede in pressione su tratti ancora interessati da un continuo ruscellamento.
Il tempo trascorre; uno, due, tre salti di pochi metri da affrontare con il discensore. Po ancora meandro. Finalmente arriviamo in un ambiente leggermente più comodo e decidiamo di fermarci per rifiatare e fare carburo.
Pochi minuti di sosta e la progressione continua.
Subito incontriamo “le faccine”, diaframma di roccia che sembra riprodurre il profilo di due persone che si guardano negli occhi senza toccarsi; ed ecco, dietro una curva a gomito di 90 gradi, il primo vero pozzo.
Una ventina di metri larghi, puliti, segnati da un leggero velo d’acqua su un lato che ci costringono nuovamente ad usare la corda statica che ci siamo portati dietro per calare i sacchi.
Siamo forse a metà strada.
Siamo di nuovo nel meandro. Altri piccoli salti verticali. Scendiamo ancora con la corda una decina di metri di quello che non è un pozzo, ma uno sprofondamento del meandro, ed eccoci in un ambiente nuovamente largo, alto, ampio.
Ad un’estremità un arrivo d’acqua da un camino di almeno una decina di metri che sparisce nel buio, crea un piccolo rigagnolo che si perde serpeggiando fra i calcari tagliati dal suo scorrere.
Dall’altra, maestoso, l’imbocco del P30 sovrastato da un meandrino attivo che sembra finto. Un taglio netto nella roccia, alto almeno un paio di metri e largo poco meno di uno, levigato, arrotondato in ogni suo centimetro di superficie che sale e si perde, dietro una curva, nel buio.
Una corda e diversi ancoraggi piantati su un suo lato sono la sola testimonianza che le nostre squadre di punta lo hanno già affrontato; lo hanno risalito per un bel tratto e si sono trovati alla base di un pozzo che maestoso e paziente attende le nostre prossime uscite per essere completamente risalito e portare …. chissà dove!
La nostra avventura, però, prosegue verso il basso, nel vuoto creato dall’acqua. Gianni scende per primo fino sul fondo, Furio e io prima caliamo uno alla volta i nostri cinque cilindrici compagni con la carrucola, poi, uno dietro l’altro, affrontiamo il pozzo.
Gli armi sono spostati, deviati lontano dall’acqua che incessante lo interessa. Su una parete, una più vecchia colata calcitica lunga almeno una decina di metri, è tagliata come fosse burro da un più giovane rivolo dì’acqua.
Un ultimo frazionamento nel vuoto, senza appoggio e via, giù gli ultimi metri, stando attenti a non … ammarare! Sì, perché una buona area della parte più bassa del baratro è un laghetto perenne. Bisogna tirarsi verso alcuni massi e evitare di fare il pediluvio.
Oramai manca poco.
Ci infiliamo nel passaggio basso tra le rocce su quello che era un sifone allagato. Sono stati necessari dei colpi di mazzetta per far defluire in maniera più veloce l’acqua, ed ora questo cunicolo è molto più asciutto, almeno quando fuori non piove molto.
Subito dopo il sifone, come una bocca spalancata, nera come la pece, la via che segue l’acqua per sparire. Una condotta lunga qualche decina di metri che, inclinata a 40 gradi, punta verso il basso, dove solo durante i periodi di siccità sarà possibile proseguire la ricerca di prosecuzioni.
Sulla destra, invece, un tratto orizzontale di alcuni metri da percorrere strisciando, termina a gomito su un passaggio stretto e liscio che con altri 40 gradi di pendenza, punta verso l’alto. Nel tubo gli stivali scivolano, le mani non trovano appigli sui quali far forza; servono gomiti e ginocchia per superare questi ultimi tre metri di calcare, ma una volta fuori, una volta di nuovo liberi nei movimenti, è come strare su un balcone. L’acqua ha creato una specie di vasca, una vasca con vista sulle gallerie!
Siamo nella parte bassa della Gabomba, quella che si è formata lungo le zone di contatto più deboli di una faglia; una faglia che pare uno di quei disegni che sui libri vogliono spiegare i fenomeni geologici tanto è dritta, sparata, evidente, onnipresente.
Gli ambienti finalmente si ampliano, stiamo camminando, eretti, in gallerie suborizzontali.
Ovunque o vecchi arrivi dall’alto o vecchi approfondimenti verso il basso. Tutti impostati sui circa 40 gradi di inclinazione della faglia.
Per terra sabbia, sottile, asciutta, impalpabile. Sul soffitto poche concrezioni e tanti segni del lavoro millenario dei vortici dell’acqua. Lungo tutta la galleria, nel punto di contatto dei due piani di scorrimento, calcare ridotto in briciole completamente cementato, segno evidente del risultato delle enormi tensioni che si accumulano nei movimenti tettonici.
Sono le nove di sera. Decidiamo dove piantare gli spit per le amache. Una sistemata ai sacchi a pelo, un po’ d’ordine in tutto il materiale e, … a cena. Una minestra calda, un paio di biscotti, una tazza di caffè e a nanna, bisogna riposarsi perché domani ci sarà da lavorare.

Sabato mattina la sveglia suona presto, neanche le sei. Durante la notte il freddo si è fatto sentire, con tutto il sacco a pelo; con tutto il sottotuta in pile; con tutte le calze in pile. Ma il tragico è uscire dal sacco a pelo e infilarsi nella indurita tuta traspirante. Una buona tazza di caffè caldo migliora la situazione e siamo subito pronti per iniziare a rilevare.
Partiamo dal meandro che, in testa alla faglia, poco sopra al campo base, porta alle gallerie più alte di Gabomba, quei meandri che da un lato vanno verso quel pozzo di circa 60 metri, risalito in artificiale, che ci ha portati quasi al secondo ingresso, ad essere nuovamente a pochi metri dalla superficie.
Rileviamo grandi vuoti che si sono formati lungo il piano inclinato rappresentato dalla faglia. Ritornando sui nostri passi, verso la “zona notte”, possiamo avere chiare la genesi di questa cavità. La zona debole rappresentata dalla faglia; l’approfondirsi successivo dell’acqua lungo la sua immersione; l’abbandono delle gallerie alte a favore di zone via via più basse; il formarsi di nuovi e più giovani meandri per l’azione successiva di scorrimenti d’acqua meno importanti, di portate minori.
Siamo con le misure nuovamente all’altezza del “tubo inclinato”. Da quel punto, da quel bivio, una galleria di dimensioni che possono solo lasciar immaginare la quantità d’acqua che l’ha percorsa, punta verso il basso. Sul suo pavimento concrezionato e inclinato, completamente asciutto, una sabbia finissima, pulitissima, degna di una spiaggia della riviera romagnola.
Sul fondo di nuovo acqua corrente, un altro passaggio semi-sifonante e poi altri ambienti, tanti ambienti. Tutti grandi, tutti contraddistinti da cumuli, montagne di fango asciutto. Tutti caratterizzati da antiche e oramai fossili condotte che nemmeno uno scultore sarebbe riuscito a levigare in maniera così perfetta. Quasi tutti condizionati da altri arrivi invece ancora attivi, che mostrano come l’opera incessante delle gocce, modelli e forgi ancora questa parte di grotta.

Rileviamo per tutto il giorno, rileviamo per ore; fino alle sale finali, quelle che sono irrimediabilmente riempite e chiuse da fango asciutto e bagnato.
Ci fermiamo solo per un breve pasto, ad un’ora che, all’esterno, potrebbe coincidere con quella tradizionale del pranzo, così alla sera, quando rientriamo al campo base, la voglia di coricarsi subito dopo aver cenato è forte.
Domenica mattina è già tempo di fare i bagagli e cominciare ad uscire. Ci vuole più di un’ora e mezza, ma alle sette e trenta siamo pronti per iniziare la risalita.
Prima, però, ci siamo imposti di rilevare ancora quel tratto di grotta che va dal oramai famoso “tubo”, fino a tutto il successivo sifone e sovrastante pozzo.
Così, mentre Gianni sposta i sacchi fino all’attacco del P30, Furio ed io continuiamo a misurare. Larghezza dopo larghezza, direzione dopo direzione, siamo tutti e tre alla base del 30.
L’acqua del laghetto è molto più alta; il sifone si stava riempiendo. Sabato deve aver piovuto, e bene!
Gianni comincia ad avviarsi; io lo seguo con una cima della cordella metrica, e quando siamo tutti e due sul ballatoio piazziamo carrucola e dressler per recuperare i sacchi. Furio,in risalita, rileva anche il pozzo.
Sono quasi le undici di domenica mattina quando, letta l’ultima inclinazione, mettiamo via l’attrezzatura per il rilievo. Abbiamo i dati di quasi tutta la parte bassa della grotta, mancano solo alcune condotte che dalle gallerie più basse si ricollegano a quelle più alte, fino a tutto il pozzo da 32,30 metri. Abbiamo svolto il lavoro che ci eravamo prefissati.
Non resta che armarsi di buona volontà e convincere i sacchi a non offrire troppa resistenza, a non voler peggiorare quella situazione che già la forza di gravità non rende allegra.
Passo dopo passo, salto dopo salto, incontro nuovamente quegli ambienti  che solo poche ore prima mi avevano visto protagonista in discesa. Le “faccine”, il pozzo da 20, il meandro, sono là ad attenderci.
Anche la vecchia prima sala, quella con la scaletta d’acciaio. Siamo vicini all’uscita, siamo quasi alla fine.
Ancora qualche curva, ancora qualche sofferenza, poi la porta metallica ci dice che siamo veramente arrivati. Salgo quel saltino di poco più di un metro che gli sta subito sotto dopo aver passato tutti e cinque i sacchi a Furio che mi precede.
Striscio ancora qualche metro e alzo un po’ la testa. Vedo l’uscita, un raggio di sole attraversa la condensa dell’ingresso e illumina il pietrisco del pavimento.
E’ una bellissima giornata di sole, anche se tutto in giro grandi nuvoloni neri non lasciano ben sperare.
Sono le cinque del pomeriggio di domenica 13 agosto (2006).
Sono passate esattamente 50 ore dal nostro ingresso.

Paolo

 

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