Anche Alberto Dini ci ha lasciati

di Rino Semeraro

Questo marzo 2019 anche Alberto Dini ci ha lasciati.

Fu uno degli speleologi che maggiormente stimai, oltre annoverarlo tra dei miei più cari amici.

Scriverò un ricordo che tralascia la mera elencazione dell’attività del Nostro, aprendo invece il pensiero al significato della sua presenza nel microcosmo dell’ambiente e della disciplina, tecnica e scientifica, cui ci dedichiamo e impegniamo le nostre forze, soprattutto quelle intellettuali, al rapporto umano, al suo modo di relazionarsi con la speleologia vista – questa – nel senso più ampio. Come Alberto Dini la intendeva, la concepì e la voleva.

Speleologicamente nacque negli anni Cinquanta dello scorso secolo e fu tra i primi soci del Gruppo Speleologico San Giusto di Trieste quando questo si costituì nel 1954. L’anno in cui la città tornò alla Madrepatria dopo nove anni di Governo Militare Alleato. Da bambino, visse le drammatiche ore della sua città nell’ultimo periodo della guerra e mai scordò quei tragici avvenimenti.

Non fu un grande esploratore di abissi né uno specialista, come – soprattutto nell’ambito triestino – solitamente s’intende, e non è detta sia la concezione più giusta. Però, fu una presenza assidua e preziosa nell’organizzazione della speleologia ove operò con rigore e metodicità; ma, sembrerebbero banali o riduttive queste mie parole, se non viste nel reale, vissuto, contesto del suo impegno. Con l’assunzione della presidenza del “San Giusto” da parte del suo fraterno amico Giorgio Tarabocchia egli ne condivise la responsabilità per moltissimi anni, divenendo “il” vicepresidente: l’uomo che organizzava, che attendeva all’amministrazione, che partecipava responsabilmente alle scelte e curava molti di quei proficui rapporti con i gruppi speleologici che furono avviati, dopo la prima fase, dagli anni Sessanta in poi.

Che il “San Giusto”, in quei primi anni, fosse avviato sulla strada delle collaborazioni (rare nella speleologia triestina di quel periodo) è un fatto, tanto che già nel 1958, su invito dell’allora Sezione Geo-speleologica della Società Adriatica di Scienze Naturali, partecipò con due speleologi alla campagna di ricerche nelle Murge che quest’ultima, coordinandosi con l’Istituto Italiano di Speleologia, aveva organizzato. In particolare, sotto la guida del team Tarabocchia/Dini prese forma una serie d’iniziative, dove le collaborazioni e una visione scientifica della speleologia ebbero il loro risalto. Prova ne sia che dagli anni dai Sessanta agli Ottanta varie iniziative, che passarono tutte per Alberto Dini con il ruolo di co-organizzatore, furono varate. Tra queste, segnalo la campagna di scavi paletnologici nella Caverna delle tre querce, sul Carso, in accordo con la Soprintendenza ai beni archeologici; poi l’esplorazione dell’Abisso dei Serpenti in Jugoslavia che portò alla scoperta del passaggio che condusse poi gli speleologi sloveni al Timavo ipogeo, oltre che a una serie d’indagini nell’abisso che andarono dalla meteorologia alla geomorfologia (in cui io fui coinvolto). Fu, il progetto all’Abisso dei Serpenti, forse la primissima azione triestina di rilievo del dopoguerra avente l’ufficialità dell’accordo con gli speleologi oltre confine. Da non sottacere che ogni ricerca sfociò poi in pubblicazioni.

Fiore all’occhiello di Alberto Dini fu la fondazione nei primi anni Settanta del Comitato regionale per la difesa dei fenomeni carsici. Un’associazione, per l’epoca, che rompeva decisamente con la tradizione di quel settarismo proprio della speleologia triestina e che imperava (in alcune frange impera ancora, fuori dal tempo). Il Comitato, che trovò ospitalità nella sede del “San Giusto” (il quale, mai chiese nulla e tanto mai interferì), svolse per alcuni decenni un’attività di rilievo affrontando, sempre per l’epoca, per la prima volta in assoluto problematiche su ambienti carsici – protezione, tutela, ecologia, etc. – svincolato dall’ottica, riduttiva, del “gruppo grotte”. Dini ne fu il presidente (salvo un periodo in cui lui, causa impegni politici, si dimise dalla carica e assunsi io l’onere), apprezzato, competente, disponibile. Posso dire, per aver partecipato a buona parte delle iniziative, come Dini fu un presidente che, pur talvolta nella “scabrosità” della materia, giacché poche leggi ancora esistevano in materia e la società civile non era ancora ricettiva come oggi né tanto meno aveva una coscienza sull’ambiente, non esitò ad affrontare uomini politici e aziende di Stato (con le loro inerzie) per portare a casa il risultato, dalla salvaguardia di una grotta al concordare modifiche in corso d’opera su infrastrutture sul Carso. E sulla veridicità di ciò posso testimoniare. Per l’epoca, non furono cose da poco.

Con Alberto Dini, poi, come Comitato importanti iniziative furono varate; tanto per citarne un paio: la celebrazione di un convegno sull’ecologia dei territori carsici a Gradisca, l’istituzione del premio intitolato a “San Benedetto abate” quale alto riconoscimento a figure che, acclarato, contribuirono allo sviluppo della speleologia regionale lasciandone duratura traccia. Iniziative che la speleologia che poi seguì – altre generazioni – non fu in grado di proseguire. Infatti, mai più si organizzò un convegno così specialistico sul tema in ambito speleologico regionale mentre il premio “San Benedetto abate” fu smobilitato addirittura per l’insipienza e il parrocchialismo della “moderna” (si fa per dire) speleologia regionale organizzata unitariamente (anzi no).

Il contributo di Alberto Dini alla speleologia – per ribadire – fu chiaramente rivolto in particolare all’ambito dell’organizzazione in generale, dove le sue doti naturali e la sua cultura lo fecero eccellere. Egli, come “San Giusto”, per esempio fu promotore di un convegno regionale di speleologia, oltre che a innumerevoli iniziative mirate, quali serate, conferenze, corsi, escursioni guidate che – sempre per l’epoca – rappresentarono nella speleologia un’apertura e una fusione fra i suoi vari aspetti, nelle diverse branche naturalistiche, dalla botanica alla preistoria. Oggi, si parlerebbe di una visione multidisciplinale. Non solo, durante la sua attività politica ricoprì più volte la carica di assessore all’ambiente della Provincia di Trieste, dedicandosi – come poteva, con i mezzi di cui disponeva, ma sempre efficacemente e con intelligenza – a problematiche riguardanti il territorio carsico provinciale, in una visione intelligentemente protezionistica ben sapendo delle esigenze dell’economia e di quelle urbanistiche, bilanciando e modulando, quale pubblico amministratore, il suo intervento. Questa, di Alberto Dini, è un’attività della quale poco si conosce ma è giusto ricordare; nei suoi incarichi pubblici egli mai scordò – valorizzando invece – le sue radici e la sua provenienza dalla speleologia e facendo di quella esperienza tesoro.

Erano anche gli anni del grande problema, piovuto sulla testa dei triestini da parte di politici, alti funzionari e diplomatici, più che dire poco sensibili, completamente digiuni in materia e sulla specificità del Carso, o semplicemente assopiti dall’arroganza degli ambienti governativi romani, dell’istituenda Zona Franca Industriale sul Carso a cavallo del confine, a seguito del protocollo economico del Trattato di Osimo del 1975. Un trattato, e una rinuncia territoriale, che nessuno aveva imposto all’Italia e privo di lungimiranza (l’inizio della dissoluzione dell’ex Jugoslavia avvenne nel 1989). Alberto Dini e il Comitato si schierarono contro, con risolutezza, al fianco di tante altre associazioni locali e forze politiche, vecchie e nuove. Trieste – si può dire – fu in rivolta: un no ampio e democratico che passò trasversalmente per tutti gli strati sociali della popolazione. Certamente, furono i grandi avvenimenti politici ed economici successivi ad affossare definitivamente quel “mostro” che – ricordo – passeggiò incorporeo tra una forte indifferenza al problema da parte delle nuove leve della speleologia triestina del tempo fortemente politicizzate dalla contestazione giovanile del Sessantotto, ma anche i protagonisti minori (come Dini) di quella maturata ribellione ebbero la loro parte. Alberto Dini, coerentemente con le proprie idee e con gli interessi della speleologia, si schierò politicamente contro l’establishment e fu eletto nelle forze d’opposizione che poi divennero nuova maggioranza e governarono comune e provincia. Ricordo con commozione, assieme all’amico Alberto, anch’io non mi sottrassi all’impegno, che vissi e testimoniai, di quella resistenza al potere. La ZFIC non si fece, e nessuno oggi ne sente la mancanza. Ripeto, incredibilmente – ma la ragione ci fu e riguardò motivi sociologici – in quella resistenza, come speleologi triestini, fummo pochi, forse perché ci trovammo a essere una “generazione di mezzo”. Giacché il tempo e la storia ci diedero ragione – a oltre quarant’anni di distanza si può dire provato – è un aspetto della vita di Alberto Dini, fortemente cementato con la speleologia, che è giusto sia posto in rilievo.

Indipendentemente dal fatto che la mia amicizia con Alberto trascendeva la speleologia e negli anni si consolidò nella vita privata, posso affermare – senza esserne influenzato ma in obiettività – che, come speleologo, egli ne aveva una visione molto ampia, concependo perfettamente l’indissolubilità tra la speleologia esplorativa e quella di ricerca, la necessità di ottenere risultati attraverso le forme di collaborazione possibili, ed era sicuramente tra quelli, del suo periodo, maggiormente proiettati verso il futuro. A volte, nei contatti pubblici, “sembrava” essere un tradizionalista, invece era il contrario. Dove andava, dove si presentava, era apprezzato per la sua chiarezza nell’esposizione che, forse talvolta passando per alcuni accenni a conservatore abilmente dati in pasto al pubblico, andava al problema senza troppo girarci attorno e – cosa da pochi – sempre portando un contributo in progettualità e non fumoso.

Speleologi con queste caratteristiche, oggi, da noi, ce ne sono pochini; tutti tesi invece a coltivare il proprio orticello, o – peggio – la propria immagine in associazionismi che, se guardiamo dentro, poca sostanza hanno. Alberto Dini invece, grazie alla sua intelligenza e disponibilità – e, attenzione, non era un presenzialista! – alla coerenza della sua visione della speleologia e alla modernità cui essa portava o perlomeno tendeva, fu un uomo che con pochi mezzi fece ottenere risultati di valore, di cui ancor oggi (fra gli addetti ai lavori, e non per l’età bensì per la conoscenza) se ne parla.

Non resta che dargli l’ultimo saluto, come si conviene a una buona e solidissima figura della nostra speleologia – tra quelle della “galleria dei ritratti” – sicuramente con tutta la mestizia che sorge dai nostri ricordi, anche però con quella consapevolezza, anzi quella pienezza, che proviene dal convincimento sostenuto dai fatti riguardo “quel” suo ruolo tra noi speleologi che ha lasciato traccia, impronta che durerà nel tempo, evidente e palese proprio grazie alla sua capacità. Una qualità che lo distinse. Una qualità che ci accompagnerà come insegnamento.

dini, tarabocchia, lupo dini primo sx

Nella foto di gruppo, Dini è il primo a sx.